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Non tutto il popolo dei velisti conosce Matteo de Nora, un italiano di nascita con molti passaporti, la passione della vela e soprattutto della Nuova Zelanda  e della Coppa America.  Matteo ha iniziato a sostenere Team New Zealand dopo l’America’s Cup del 2000, fondando il “Mates Group of Supporters” e da allora non ha mai smesso di voler bene a Grant Dalton e ai suoi ragazzi. Sono state gioie e dolori, come la separazione da Dean Barker, per cui era un grande amico, dopo la sconfitta di San Francisco. Ma può essere considerato un vero salvataggio.  Negli anni il suo coinvolgimento, anche economico, è cresciuto e ha sostenuto il team nella partecipazione alla Volvo Ocean Race del 2011-12 e nelle edizioni della America’s Cup 34 e 35.
Con il suo supporto e collaborazione il team ha riconquistato la Coppa nel 2017 con le regate delle Bermuda e la ha difesa con successo nella edizione del 2021 a Auckland.
Nel 2011 il Governo neozelandese gli ha assegnato per il suo supporto alle campagne per l’America’s Cup della Nuova Zelanda e la ricerca medica neurologica il grado di Companion dell’Ordine del Merito della Nuova Zelanda.

Lo yacht design è il cuore del mercato della nautica e lei ha lavorato molto con i designer per le sue barche e per l’America’s Cup. Qual è la situazione attuale?
Il numero di barche a motore rispetto a quelle a vela è in aumento, ed è un peccato. Le imbarcazioni diventano sempre più grandi e il legame con il mare si attenua. Le grandi barche stanno sostituendo le case per chi vuole vivere vicino al mare, anche se a bordo il mare si sente sempre meno. L’industria dovrebbe concentrarsi sulla riduzione dell’impronta di carbonio e costruire imbarcazioni che non si affidino così tanto all’elettronica e alla tecnologia. Quando sono in mezzo all’oceano, mi sento più sicuro su una barca a vela.

Pensa che vedremo imbarcazioni da diporto foiling?
Sì. A lungo termine, il foiling arriverà sulle imbarcazioni da diporto. Qualsiasi cosa riduca il consumo di energia lo farà. Per quanto riguarda la velocità e le dimensioni, invece, ci scontreremo con un muro. Il limite sarà la realtà. Ho visto le foto di una nuova barca di 30 metri, che non è propriamente foiling ma può comunque sollevarsi dall’acqua per ridurre la resistenza. È un primo passo e questo fa la differenza.

Parliamo di transizione energetica e di idrogeno.
Se la domanda è: “L’idrogeno sostituirà l’energia elettrica nel lungo periodo?”. La mia risposta è sì, ma al momento non è economicamente praticabile. La differenza di prezzo non sarà colmata rapidamente perché il costo dell’energia generato con idrogeno è molte volte superiore alla tradizionale e per distribuirla e produrla occorre un’infrastruttura. Per prima cosa la tecnologia deve dimostrarsi valida, cosa che forse accadrà presto, e poi deve diventare commercialmente redditizia.

Sono d’accordo
I problemi sono immensi ma l’innovazione va sempre più veloce. L’intelligenza artificiale farà un’enorme differenza, non necessariamente nella qualità dell’innovazione ma nella sua velocità. La usiamo nel Team New Zealand, anche altri team la utilizzano. Tutti stanno cercando di implementarla.

Lei è un velista appassionato. Qual è la scintilla della sua passione?
La vela era l’unico modo per vedere e raggiungere certi luoghi con un’altra prospettiva. Se si viaggia con i megayacht, non sempre è possibile visitare i luoghi a cui mi riferisco. Per esempio, non si poteva navigare il Rio delle Amazzoni. Trent’anni fa si potevano visitare luoghi come le Galapagos, in America Centrale, o le isole Tuamotu nel Pacifico solo con una barca a vela. La mia passione non è stare in mezzo all’oceano con onde enormi e venti gelidi, ma la vela è il modo migliore per circumnavigare il globo.

Parliamo della Coppa America. Cosa ci dice della scelta di Barcellona per la 37ª edizione?
L’America’s Cup a Barcellona è un grande risultato. Grant Dalton dedica molto tempo all’evento. Sarà un evento importante per Barcellona, il primo dopo le Olimpiadi del 1992. La Generalitat, il Consiglio esecutivo della Catalogna e il Comune hanno accettato con entusiasmo questo progetto così grande. Soprattutto, hanno capito che questi eventi accelerano la crescita della città e lo sviluppo delle infrastrutture. Stanno facendo una quantità incredibile di lavoro. L’avrebbero fatto comunque, ma grazie all’America’s Cup, l’hanno fatto prima e a un costo inferiore a causa dell’attuale inflazione.

In che modo la Coppa aiuterà la città?
In media, un turista si ferma da uno a due giorni, se arriva o parte con una nave da crociera si ferma per 4 ore. Un tifoso dell’America’s Cup invece resterà in città da sette a dieci giorni. In un hotel ora ti chiedono: “siete qui per l’America’s Cup?”. Questo cambio è piuttosto impressionante, ed è uno dei motivi per cui l’evento si svolgerà alla fine di agosto. Perché non c’è bisogno di riempire gli hotel in agosto, luglio o giugno, ma di prolungare la stagione. Avevamo ricevuto offerte da altre città; vorrei citare Malaga, Jeddah e Cork. Barcellona però è al centro dell’Europa e può ospitare eventi con i J Class, i Maxi, i 12 metri S.I. e altro ancora.

Louis Vuitton torna alla Coppa, forse è utile anche per riportare un’atmosfera per certi versi mai dimenticata. Cosa ne pensa?
Sì, sicuramente. Louis Vuitton resta sinonimo di America’s Cup e riporterà molto più di un’atmosfera. È un partner che, come ha dimostrato in 40 anni di storia, oltre al prestigio, sa come garantire la crescita dell’evento attraverso una collaborazione positiva e costruttiva.

Cosa vi aspettate dall’AC40?
Tra quelli formati dalle donne e dai giovani, ci saranno 24 squadre provenienti da 12 Paesi, comprese le sei che partecipano alla Coppa. L’equipaggio deve essere composto atleti che hanno la nazionalità di bandiera. Credo che alcune di queste squadre non sarebbero venute se non avessimo spostato la sede in Spagna. Barcellona si è rivelata ancora una volta un’ottima scelta. Più grandi sono i numeri, più pesanti sono le responsabilità, poiché le infrastrutture, il numero di persone, la durata dell’evento e gli obblighi logistici aumentano in proporzione.

E gli sfidanti? Gli piace il Barcellona?
Penso che i team siano soddisfatti di Barcellona. Mi sarebbe piaciuta anche Malaga, perché è una città più piccola, e Cork perché è una bellissimo campo di regata e si parla inglese e sarebbe stato più facile per le squadre comunicare.

È ancora vero che vincerà la barca più veloce?
In un certo senso questo è sempre stato vero. Con il foiling siamo passati però a un altro livello, che continuo a scoprire ogni giorno. Una volta raggiunta una certa velocità, intorno ai 50 nodi, il comportamento del foil lancia sfide diverse: la cavitazione infatti apre le porte a problemi completamente diversi. Quindi l’obiettivo non è quello di raggiungere la velocità più alta in assoluto, ma di mantenere la velocità media più elevata per tutta la regata.

Il gioco dell’America’s Cup sta cambiando nelle acque di Barcellona?
Facciamo un paragone con le corse automobilistiche: se si guida su un circuito molto accidentato, si devono avere un diverso assetto delle sospensioni, un set di pneumatici particolare, ecc. A Barcellona, le imbarcazioni navigheranno nel in prevalenza mosso. Di conseguenza dobbiamo adattare la forma e le dimensioni dello scafo e del foil a queste condizioni.  Progettisti e ingegneri ci dicono che è necessario un approccio diverso rispetto ad Auckland, dove si navigava principalmente in acque piatte.

Parliamo sempre di tecnologia e a volte dimentichiamo degli uomini che conducono le barche.
Il ruolo dei velisti non è meno importante di prima. E, a queste velocità, ogni piccolo errore è molto più costoso rispetto a dieci anni fa. È interessante: la tecnologia aumenta, ma anche le capacità dei velisti devono migliorare. Adesso cinque secondi per prendere una decisione possono essere troppi. Non si può guardare solo 20 metri davanti a sé, ma 200 metri più avanti. La vela in Coppa America è cambiata molto dopo l’edizione a Bermuda. Questi sono ormai aeroplani sull’acqua.

Uno dei punti di forza di ETNZ è la presenza di un cantiere navale.
Un aspetto positivo di Team New Zealand è che siamo l’unico team ad avere il proprio cantiere navale. Durante il Covid, avevamo portato delle roulotte in cantiere per far dormire lo shore team.  Siamo stati in grado di esprimere molte ore di lavoro anche ogni volta che siamo rimasti chiusi in lockdown, cosa che sarebbe stata difficile per un cantiere commerciale. Avere un cantiere proprio significa essere più veloci: si possono fare errori ma anche correggerli. Non bisogna aspettare che un fornitore metta a posto le cose e così si possono stabilire delle priorità.

Cosa racconta di Grant Dalton?
Il team che vince l’America’s Cup deve gestire l’evento, decidere le regole, ecc. Credo che Grant faccia probabilmente il lavoro di 20 persone anche perché tutti vogliono avere a che fare direttamente con lui. Per quanto riguarda il team, il suo punto di forza è saper identificare i punti deboli, concentrarsi su di essi e migliorare. È interessante notare che alcuni dei migliori team manager di Coppa America di tutti i tempi (Blake, Coutts, Dalton) sono neozelandesi. Si conoscono tutti fin dalla scuola, dove la maggior parte dei ragazzi impara a navigare. Anche perché nessuna località della Nuova Zelanda dista più di 100 km dalla costa.

Con il ritorno della Coppa in Europa, come ci si può evolvere senza applicare formule del passato?
Si può continuare ad andare avanti senza trasformare l’evento in uno spettacolo come sta facendo la Formula Uno. Ci sono diversi modi per farlo. Ad Auckland abbiamo introdotto un livello di copertura completamente nuovo, grazie alla qualità delle trasmissioni televisive. Volevamo che i commentatori spiegassero al pubblico cosa stava accadendo e perché. Le TV libere da diritti hanno reso felici i tifosi e gli sponsor. Abbiamo introdotto regola di nazionalità piuttosto rigida e ricordato che la vela non è uno sport d’élite. La Nuova Zelanda e l’Italia sono i Paesi che seguono di più l’America’s Cup, ma stiamo lavorando per ampliare il pubblico.

Ha una squadra preferita?
Team New Zealand è forte, ma ricordo anche che nella storia dell’evento nessuna squadra ha mai vinto tre volte di fila. Oggi, NYYC American Magic sembra molto in forma e molto concentrato. Tom Slingsby è estremamente forte. Terry Hutchinson ha il talento e l’esperienza per organizzare la squadra e gestire la campagna. Direi che gli americani sono i favoriti tra gli sfidanti.

 

 

 

Quanto vale la Coppa America in termini di comunicazione e media? E’ la domanda cui bisogna saper rispondere quando si cerca sponsor per questa titanica impresa. Negli anni passati il vero valore della Coppa è stato mascherato dalle opinioni di chi voleva o non voleva partecipare. In generale chi non conosce questo sport, e non vuole assumersi i rischi che qualsiasi sponsorizzazione di un partecipante (che a differenza di una manifestazione può vincere e moltiplicare i risultati oppure perdere e non apparire quanto si desidera) vuole/vorrebbe dati certi, promesse. Si attiva così un percorso vizioso, non virtuoso, dove ci si contenta del poco ottenuto con il marketing e le pubbliche relazioni piuttosto che dell’impresa vincente che resta un territorio dove si inoltra chi è appassionato e di conseguenza ci crede fermamente. Una malattia che la vela conosce bene: una miriade di regate con contenuti tecnici modesti che diventano grandi eventi e che hanno fatto pensare al mondo che la vela è tanta mondanità e poco sport. Per questo, in generale, la Coppa America non è una avventura per manager che devono rispondere delle loro decisioni, e lo è per tycoon che talvolta sono riusciti a ottenere per le loro aziende e per se stessi risultati formidabili. Uno per tutti Thomas Lipton.

Il caso più eclatante in Italia, che poi ha pesato sul mondo della Coppa in maniera importante negli anni successivi, è quello del Moro di Venezia: l’impresa di Raul Gardini è stata totalmente disconosciuta dai manager di Montedison che hanno nascosto e addirittura alterato i dati raccolti sul “successo” mediatico del Moro. A quel tempo le rassegne stampa erano ancora cartacee, era l’era del fax e non delle mail. Le avventure della barca italiana avevano riempito giornali, televisioni, ma dopo non hanno risparmiato al Moro e alla vela anche una buona dose di autentica diffamazione. Certo, c’è stata una contaminazione del messaggio con tangenti, giudici, intrighi politici che andavano ben oltre l’evento sportivo, dove ci vogliamo fermare per guardare in “valore assoluto” e senza altra missione l’evento con l’occhio degli sponsor e dello sport.
La bella storia di Luna Rossa ha ristabilito in gran parte, e ci è voluto tempo, un rapporto più realistico tra sponsor ed evento, confermando (almeno indirettamente) che la passione del patron (come in ogni squadra che si rispetti, dal calcio alla F!) può sposarsi con successo con interessi di marketing. Come diceva Alan Bond, ritratto nella foto in bianco e nero e vincitore della Coppa America nell 83 con Australia II: “chi pensa che si possa fare la Coppa America senza risvolti economici è un pazzo”.
Per farci guidare in questo territorio incognito abbiamo interrogato Cesare Valli, che è un riferimento nel mondo della comunicazione, per Hill+Knowlton Strategies è stato Chairman e Ceo South Europe e Italy. Ha lavorato per la prima Azzurra, poi per il Moro di Venezia, ha sempre osservato la Coppa America e la vela come occasioni importanti di comunicazione. Questa intervista è stata realizzata nel 2013, prima delle regate di San Francisco quarta sfida di Luna Rossa. Il contenuto è del tutto attuale.

Quale è il valore della Coppa America per uno sponsor?
“Sono convinto sia uno dei grandi eventi, come lo sono i Mondiali di Calcio, le Olimpiadi. E’ un grande evento di risonanza mondiale buono per global players ed è un palcoscenico per gente dal conto economico importante. Gli eventi sportivi di alto livello sono sempre luoghi di incontro per i grandi businessman: si racconta che la prima volta che Berlusconi è riuscito a parlare al telefono con l’avvocato Agnelli è stato quando ha comprato il Milan e potrei citare molti altri casi. Vero o no che sia l’aneddoto il significato e’ chiaro. Per le aziende ci sono sempre ritorni economici importanti, non ho nessun dubbio, naturalmente se le cose sono fatte come si deve perché ci vuole la capacità di supportare la campagna con politiche di comunicazione adeguate”.

Lei ha partecipato alla prima sfida di Azzurra, cosa voleva dire parlare di Coppa America trenta anni fa?
“A quel tempo lavoravo per Foote Cone & Belding, e tra i nostri clienti c’era Cinzano, una delle aziende che l’avvocato Agnelli aveva chiamato attorno alla sfida in consorzio assieme a Iveco, Barilla ed altri. Ci siamo subito resi conto che tra i compiti che dovevamo affrontare c’era quello di una azione di informazione: spiegare ai giornalisti e dunque al pubblico cosa era la Coppa America. Poi abbiamo avuto anche un po’ di fortuna, perché nessuno a dire il vero si aspettava di finire in semifinale e questo ci dette un vantaggio clamoroso. A ogni vittoria potevamo percepire gli effetti positivi. Per Cinzano si trattava, tra le altre cose, di cancellare dalla memoria collettiva la parola “vermouth” con la sua immagine polverosa e cambiare il posizionamento del prodotto dopo che Martini era riuscito a collocarsi più in alto. Con la Coppa abbiamo riposizionano non solo il prodotto “vermouth” come aperitivo, ma anche tutta la linea di spumanti. E Cinzano dopo la Coppa è stata venduta bene, una analogia con Serono di Ernesto Bertarelli: l’effetto di una certa visibilità che ti porta ad avere contatti di rilievo e attrarre investitori”.

Ha poi lavorato per il Moro di Venezia.
“Il Moro ha avuto un ritorno ancor più clamoroso, io ho sempre pensato che Raul Gardini avesse un obiettivo preciso: era un grande visionario anche se spesso consigliato male e solo. Ricordo bene quando nel giardino di Ca’ Dario ci diceva “io ho i materiali”, adesso sappiamo meglio cosa è il mercato dei materiali evoluti, del carbonio, che si è largamente diffuso. Ogni volta che tornavamo da lui aveva comprato un paio di aziende. E poi aveva anche una visione dell’Italia e delle sue coste come polo turistico. Insomma, aveva un disegno industriale e commerciale preciso. I risultati in termini di comunicazione del Moro sono stati decisamente elevati, noi abbiamo quantificato una resa con un moltiplicatore di 8/10 volte l’investimento. Il Moro ha conquistato la prima pagina della Gazzetta, dove di solito si arrivava e si arriva solo con il calcio”.

Siamo alla quarta campagna di Luna Rossa, cosa ne pensa?
“Se Azzurra era il battesimo, il Moro è stata la grande sfida. Luna Rossa è la tecnica, l’attenzione al lavoro sistematico e preciso. Anche per lei accedere alle finali e alla Coppa è stato un momento di grande successo. Prada propone un prodotto particolare, che non può scendere sotto un certo livello di banalizzazione e per loro non erano molto interessanti i mercati europei quanto quelli internazionali degli Stati Uniti e del Far East. Patrizio Bertelli ha avuto una intuizione fenomenale a quotare a Hong Kong con un risultato grandioso e li può aver lavorato positivamente un certo effetto Coppa America”.

Italia, Mascalzone Latino, +39?
“Non avevano il fisico, mi spiace”

Cosa manca alla Coppa America?
“Intanto personaggi visibili e campionabili. Poi gli uomini di marketing che potrebbero sfruttare meglio le opportunità legate a questo grandioso evento conoscono poco la vela. Manca una buona Tv, perché si potrebbe fare molto meglio: il linguaggio con cui si raccontano le cose è importante. Bisogna saper spiegare gli aspetti tecnici e le regole. Ma alla gente la Coppa piace. Chissà se prima o poi avremo la Coppa da noi!”.

E’ un terremoto annunciato quello che si è prodotto ieri in Coppa America: Grant Dalton, CEO di Team New Zealand ha portato a termine il suo disegno di portarla fuori dalla Nuova Zelanda e ha annunciato che la prossima edizione sarà in settembre e ottobre 2024 a Barcellona. Lo ha fatto assieme al sindaco della città Ada Colau e al capo del Governo della Catalunya  Pere Aragonés. Per i puristi conservatori  è un colpo basso alla leggenda, per gli innovatori un passo avanti verso un pubblico più consistente e internazionale.  Dopo Valencia 2007, edizione memorabile, per questa seconda volta in Spagna  erano Cork in Irlanda, Malaga, Valencia, la stessa Auckland ma soprattutto Jeddah in Arabia Saudita dove i kiwi erano in delegazione lunedì prima della decisione finale. Chi  sarà lo sponsor della selezione sfidanti?  Tornerà la Prada Cup? Bertelli ha un diritto di prelazione da esercitare entro 90 giorni. Le alternative potrebbero essere uno storico ritorno di Louis Vuitton, o l’arrivo di Ineos che sostiene il Challenger of Record Britannia. Di sicuro torna Luna Rossa, con soddisfazione per il campo di regata europeo.  Torna anche Alinghi Red Bull con un team stellare.

Con qualche giorno di anticipo sulla data promessa, il 31 marzo, il Defender della Coppa America, Royal New Zealand Yacht Squadron e il Challenger of Record Circolo della Vela Sicilia (ovvero Luna Rossa) hanno presentato il regolamento che sarà alla base della costruzione delle nuove barche AC 75 per il match della edizione numero 36, campo di regata Auckland nell’estate australe del 2021. Il regolamento rispetta quanto scritto finora, ovvero monoscafo foiling di 75 piedi (22 metri circa). Sarà una barca complessa: per alzarsi sull’acqua è previsto un sistema di pinne e zavorre mobili. In pratica durante la navigazione la pinna sottovento resta in acqua esprimendo il sostentamento necessario al sollevamento, mentre quella sopravento sarà zavorra, il contrappeso necessario per contrastare la forza della vela. La vela principale è una specie di ala non rigida, una vela che un artificio di stecche e strutture renderà “spessa” e non una semplice superficie. Non tutti sono felici di questa scelta compromesso che nasconde da una parte la voglia di essere riconoscibili al grande pubblico, che considera la barca monoscafo, e dall’altra il desiderio dei progettisti vincitori di mantenere il vantaggio conquistato nelle ricerche fatte per vincere a Bermuda lo scroso giugno.  Sono in molti a dire che una volta deciso di abbandonare i catamarani dell’ultima edizione un ritorno più radicale alla tradizione, con un grande monoscafo solo planante non foiling ma comunque spettacolare e maneggevole,  avrebbe giovato all’evento. La barca avrà alcune parti comuni tra i diversi team: il sistema di movimento delle pinne/zavorra, il profilo dell’albero, il rigging ovvero l’attrezzatura dell’albero.  Ci saranno limiti di costruzione per molti componenti , per ridurre i budget complessivi. Si sa bene che la Coppa può diventare facilmente un pozzo di San Patrizio, chi ha soldi cerca in ogni modo di convertirli in velocità. Il nostro Patrizio, ovvero Bertelli alla sua sesta sfida al massimo trofeo velico, ha preso di petto la vicenda: con Prada sarà sponsor di un team con ambizioni di vittoria, ma anche lo sponsor delle regate di selezione degli sfidanti. Quella per intenderci che era la Louis Vuitton Cup e che hanno vinto sia Luna Rossa sia il Moro di Venezia. Il consiglio di amministrazione della maison ha deciso di finanziare il team con 65 milioni di euro: non è chiaro, solo molto probabile, se sarà anche il budget del team o se ci saranno altre iniezioni di denaro con altri sponsor. Luna Rossa si è assicurata il diritto dovere di essere il COR, cioè il Challenger of Record, primo degli sfidanti e responsabile dei rapporto con il defender e gli altri sfidanti. La piccola organizzazione per il momento conta super esperti di Coppa America: Laurent Esquier, Matteo Plazzi (che va ricordato vincitore a bordo di Oracle nel 2010), Alessandra Pandarese e Jennifer Hall. Il team italiano sarà condotto da Max Sirena con Francesco Checco Bruni e l’americano James Spithill che è stato assunto poche settimane fa. Base operativa Cagliari. Ci sono altri sfidanti? Pochi per il momento, i più dotati di denaro, sulla carta più di Luna Rossa, sono il team America Magic con Terry Hutchinson per il  New York Yacht Club e Land Rover Bar di sir Ben Ainslie per il  Royal Yacht Squadron. Budget oltre i 100 milioni di euro. In Italia è noto il desiderio di partecipare di Adelasia di Torres, sindacato di base sarda e con probabili denari medio orientali. Un sindacato australiano non è ufficializzato, così anche uno cinese e un altro italiano. Alla finestra per il momento restano Alinghi il cui patron Ernesto Bertarelli ama i catamarani e Artemis, due volte partecipante e ora in difficoltà di budget e per rispettare le regole sulla nazionalità. Probabilmente parteciperanno a un circuito parallelo organizzato con i “vecchi” cat trasformati in monotipo da Russell Coutts, con potenziale sponsor Louis Vuitton, che avrà il sapore della regata degli esclusi, una prova di forza cui la Coppa ci ha abituato: il lettore non si agiti, tanto vince sempre la vecchia Coppa questi confronti. Si, uno dei più forti vincoli della prossima Coppa saranno le regole per la nazionalità di residenza e provenienza dell’equipaggio. In pratica è richiesto un numero di giorni che impedirebbe all’equipaggio svedese di allenarsi per un tempo congruo in mare cosa impossibile per il lungo congelamento del mare e comunque la temperatura rigida. Per il sindacato svizzero il limite potrebbe essere simile. Insomma una regola che una volta comunicata qualche mese fa aveva suscitato critiche per essere troppo leggera sta diventando invece un limite alla partecipazione. Non solo il 20% dell’equipaggio deve avere la cittadinanza ma la gran parte degli stranieri devono comunque avere un periodo di residenza e presenza piuttosto lungo. La speranza adesso è di arrivare a  cinque, sei sfidanti: non gli otto dieci che si sperava.  Sarà una bella Coppa America, soprattutto perché Bertelli ha imposto una visione popolare della distribuzione dei diritti Tv, delle immagini e di quanto fa social. Questa,  tra tutte, sarà probabilmente la novità più determinante per la conquista del pubblico che ancora non c’è.

Alan Bond, il primo sfidante che sia riuscito a strappare l’America’s Cup agli americani (nel 1983) diceva: “chi si illude che la Coppa non sia una questione economica è un ingenuo”. Bond, australiano qualche anno dopo la vittoria ha fatto bancarotta. Era stato in grado di comprare nel 1987 gli Iris di Van Gogh per le cifra più alta mai battuta per un quadro fino a quel tempo, 53,9 milioni di dollari. Cifra poi battuta con un quadro di Jasper Jones. E la Coppa che si è corsa a Bermuda non va tanto lontano da questa regola aurea. Le isole sono state scelte per il campo di regata per la loro conformazione, ma anche per gli investimenti del Governo locale sia nei confronti del territorio sia verso l’organizzazione gestita dal defender Oracle e da Acea (America’s Cup Event Authority) di cui era presidente Russell Coutts. Un totale di 77 milioni di dollari, di cui 15 per Acea, 22 per infrastrutture (che restano), più meno quello che spende un team per partecipare.

Misurare il beneficio per le isole che sono considerate il luogo più costoso del mondo non è facile. Una bottiglia di acqua neozelandese o anche uno dei nostri marchi costa al supermercato quasi tre dollari, una mela un dollaro e mezzo. Il tassista interrogato risponde “è andata bene, quasi tutti hanno avuto qualcosa, è arrivato qualche migliaio di persone”. Altri pareri non coincidono, qualcuno scrive di alberghi che non si sono riempiti di tifosi e pubblico ma dei soliti turisti in cerca di spiagge.  Alle Bermuda abitano 65000 persone, e lo spostamento di qualche migliaio di persone che in una grande città di mare farebbe sorridere qui diventa sensibile. Nei giorni migliori degli eventi organizzati a Napoli si è arrivati a contare 50/60 mila persone presenti sul lungo mare, e non era vera Coppa America.   ACEA ha cercato di portare a casa denaro ovunque, dai diritti Tv ai biglietti. La produzione Tv meravigliosa per un evento di barche, cui sono dedicate 120 persone come a San Francisco. Tuttavia l’operazione è riuscita parzialmente, i dati di pubblico presente fisicamente sono molto modesti: il villaggio è pieno la sera quando ci sono i concerti e i Dj set che di giorno durante le regate. In molti casi i telespettatori hanno preferito rinunciare alle dirette tv per non pagare gli abbonamenti, anche alle app per tablet. Come ha dichiarato Matteo de Nora Team Principal di ETNZ in una intervista il problema della diffusione Tv diventa cruciale per assicurare pubblico alla manifestazione.

C’è anche un retroscena difficile da verificare ma di cui si parla con una certa insistenza. Il board dei director di Oracle avrebbe pregato Larry Ellison di spendere meno per la Coppa e lui stesso si sarebbe un poco annoiato del giocattolo e avrebbe detto ai velisti “cercate di essere autosufficienti”, ovvero pagate le spese con l’organizzazione e gli sponsor. Questa posizione potrebbe ragionevolmente spiegare anche la perdita di competitività del team velico e la sconfitta che si prospetta, ma non si spiega con il patrimonio personale stimato di Ellison in 50 miliardi e la sua natura di padre padrone dell’azienda. Per Emirates Team New Zealand  è facile spendere poco: sono abituati all’economia da sempre, la loro campagna vincente del 1995 è stata una delle più misurate della storia, e da allora è difficile che il denaro esca dal portafoglio senza motivo. Il team kiwi è sostenuto da tutta la nazione, in altre edizioni il Governo è intervenuto direttamente perché ha capito, purtroppo solo dopo aver perso nel 2003, che la Coppa significa avere un driver per l’economia del paese dove l’industria nautica che vale circa 1 miliardo di euro è tra le prime del paese e il turismo aveva goduto di una accelerazione, così come gli investimenti edilizi a Auckland. Una situazione completamente diversa, per interessi e dimensioni, da quella che si vive a Bermuda.

Per il dream team americano invece non avere denaro a fiumi diventa presto soffocante. E’ anche qualcosa di insito nei caratteri delle due nazioni. Quanto hanno speso? Sono stime ma ragionevoli: 50 milioni di dollari per i neozelandesi, 90 milioni di dollari per gli americani. Cifra simile per gli svedesi di Artemis. Solo gli inglesi di Land Rover BAR, guidati da sir Ben Ainslie si possono considerare i grandi battuti della edizione 35 della Coppa hanno speso di più dichiarando un budget di 110 milioni, di cui circa 60 raccolti tra gli sponsor maggiori, una ventina dalla città di Portsmouth che ha messo a disposizione base e strutture, più le donazioni degli stakeholder tra cui numerosi lord e sir. Gli altri sindacati ovvero i francesi di Groupama, i giapponesi di Softbank Team Japan, più o meno valgono 30 milioni e sono stati sostenuti da Oracle stesso con forniture di design e materiali. Uno dei quesiti per la prossima edizione è proprio come non perdere partecipanti, come riuscire a mantenere alto il livello di attenzione. C’è chi sogna le grandi edizioni della Coppa: 87 in Australia, 92 a San Diego, 2007 a Valencia, con tante squadre interessi ed eventi. La ricetta o la responsabilità  è in mano al prossimo vincitore.

I kiwi vanno di più. Nessuno lo vuole dire per scaramanzia. Ma è così: la superiorità è evidente almeno con il vento che non ha superato i dodici nodi del primo week end di regate. La sfidante Emirates Team New Zealand è stata migliore del defender Oracle in tutti i settori: ottime le quattro partenze di Peter Burling, che si temeva fosse a disagio con l’esperto avversario James Spithill, ottima la velocità, a volte tremendamente superiore a quella degli americani. I neozelandesi hanno prima rimontato il punto di svantaggio con cui partivano per merito della classifica dei Round Robin, e poi si sono elegantemente portati sul 3 a zero. Il campo americano è visibilmente abbattuto  ma c’è una grande prudenza da parte kiwi: nel 2013 gli americani sono stati in grado di esprimere una furiosa rimonta che non ha lasciato scampo. A Coppa praticamente vinta: giova ricordare che i neozelandesi erano in testa nella regata che poteva essere decisiva ma che è finita fuori tempo massimo e da li sono cominciati i loro guai. E James Spithill ha promesso “proveremo di tutto, ci siamo già riusciti una volta. Cinque giorni di lavoro sono tanti”. Vero, si ricomincia a regatare sabato prossimo e in tutto questo tempo Oracle può trovare delle soluzioni come ha fatto a San Francisco senza questa pausa.  Tuttavia non sempre riesce la manovra. E a quanto pare i neozelandesi sono riusciti a esprimere miglioramenti di velocità anche in questi giorni, sembra perfino che abbiano dosato l’acceleratore dell’innovazione per non mostrare troppo di quello che avevano in casa. Insomma hanno tenuto nascosto qualche “weapon” per il gran finale.
SI sprecano i complimenti per il timoniere Peter Burling. Freddo in conferenza stampa, freddo in regata e ben coordinato con lo skipper e tattico Glen Ashby. Lo speaker di una delle televisioni americane ed ex velista Ken Read prima della partenza della prima regata, vedendolo troppo sereno ha commentato “qualcuno spieghi a questo ragazzo che sta per cominciare la Coppa America”. E l’ha cominciata senza soggezioni, con una sessantina di pulsazioni. Qualche errore il primo giorno, soprattutto una mancata intesa con il tattico e skipper Glen Ashby che deve tenere per alcuni secondi il timone nelle manovre. Più puliti domenica, in cui i kiwi hanno somministrato lezioni ancora migliori agli americani che pure avevano cambiato degli assetti  nel tentativo di avvicinarsi alla velocità dei neozelandesi.  La barca neozelandese rispetto a quelle degli avversari ha due differenze fondamentali, la forma delle derive che anche in televisione è molto visibile, quella kiwi ha una forma spezzata e più lunga che è quello che le da vantaggio con poco vento, e il modo di regolare l’ala. Questo nella frenesia delle immagini televisive è più difficile da vedere ma sembra essere una delle chiavi del successo dei neozelandesi che hanno anche un sistema di regolazione assistito che non prevede il verricello che ancora hanno gli avversari. Tutto più rapido e semiautomatico. Questa è sicuramente un argomento su cui gli americani lavoreranno intensamente osservando i video per comprendere le differenze.

Il prossimo week end sarà quello del tutto esaurito: le Bermude confermano la loro attitudine di paese dei balocchi,  infatti sono arrivati i megayacht che hanno riempito le banchine, le rade sono piene di barche di tutti i tipi. Il pubblico si dispone attorno al campo di regata dove in realtà dalla barca si vede più o meno quello che si vede d terra, ma certo non si fa sfoggio dei propri gioielli. Nei prossimi giorni si gioca quello che è iniziato già da tempo: il toto Coppa. Cioè la scommessa su come sarà la prossima edizione. Tanti tifano ETNZ nella speranza che riporti alla vecchia leggenda il regolamento soprattutto al monoscafo di grandi dimensioni, alle regole che impongono che ci sia una gran parte dell’equipaggio della nazionalità di bandiera del club sfidante. Insomma, che ci sia una sorta di restaurazione dopo quello che ha imposto Russell Coutts nella convinzione che abbia impoverito lo spettacolo più che arricchirlo. Sarà così? Intanto uno degli sponsor di ETNZ, Toyota, ha pubblicato una pagina sul quotidiano locale “se ci sostenete vi lasciamo la barca”. Come dire: se vinciamo non ci serve più e resta qui.

Sono una vecchia signora che ha oltre un secolo e mezzo di vita: devo ammettere che è stata una vita burrascosa, piena di avventure di ogni genere. Il primo a prendermi a martellate è stato un esperto gioielliere operaio di Garrard & Co nel 1848, doveva sistemare alcune cose imperfette della mia fusione. Dopo, purtroppo, lo hanno fatto tanti altri, ma ne sono uscita quasi sempre bene, più in forma di prima, più lucida e desiderata. Nel 1851 sono stata donata dal marchese Henry William Paget per essere il premio della regata che ogni anno si corre attorno all’isola di Wight. Da allora mi hanno chiamato in tanti modi: un po’ volgarmente Coppa delle Cento Ghinee, poi America’s Cup, a qualcuno piace chiamarmi Auld Mug termine confidenziale di cui quasi tutti sbagliano lo spelling.

Per qualche giornalista sono stata anche il vaso di Pandora, e di questi tempi non ha tutti i torti. Mi hanno davvero desiderato in tanti, soprattutto i ricchissimi della terra con la passione della vela, ma ho fatto divertire anche tanti giovani e solidi velisti (i miei preferiti…) e mi sembra di continuare a farlo.

Diciamoci la verità: per me si strappano i capelli ancora in tanti, di tutte le età e di tutti i portafogli. La mia età, la mia leggenda, mi hanno fatto diventare un simbolo: non solo dello sport di cui resto il trofeo più antico che ancora si disputa, ma anche di quel magico intreccio che lega sport, nazioni, economia, tecnologia. A mio modo sono un patrimonio dell’umanità, non solo la proprietà dell’ultimo vincitore che mi tiene nella sua bacheca per quanto gli riesce. Per anni tecnologia è stata la parola magica e necessaria per vincere e partecipare, perché la mia natura è sempre dare una spinta inesauribile verso il futuro: sono vecchia, ma sono come un ago della bussola che indica la direzione che prenderà il mondo.

Vi dico che… adesso faccio un po’ fatica a farlo. A San Francisco (per fortuna) sono riuscita a metterci del mio nello spettacolo, come riesco sempre a fare. Ma mi sento un po’ stanca e vorrei trovare maggior collaborazione di tutti. Anche questa volta il defender Oracle è stato molto tiranno e ha stancato il Challenger of Record fino a farlo ritirare: il secondo in due edizioni, dopo Mascalzone Latino, converrete tutti è troppo. E poi quella Corte Suprema sempre necessaria per mettere ordine tra chi non sa essere sportivo. I cinque challenger della prossima volta mi sembrano pochi: Luna Rossa, Artemis, Team France, New Zeaand e Ben Ainslie Team. Insomma, vorrei qualcosa di più, più nazioni, più team, più spettacolo. Sbaglio? Certo direte, pochi ma buoni, ma sembra un po’ un alibi.

Si discute tanto sul mio argento su quale regno sia stato migliore o peggiore tra quello di Ernesto Bertarelli o l’attuale di Russell Coutts/Larry Ellison (chi decide davvero?). A me sono piaciuti tutti e due, per motivi diversi sono stati dei grandi protagonisti. Però devo confessare che, se ripenso alle grandi edizioni dell’Australia o di San Diego dove alla mia forza si mescolava un’atmosfera ancora leggera dove il fair play aveva il suo spazio, io mi sento un poco più povera, e potete capire che per una regina non è certo degno.  Se proprio devo dirla tutta mi manca anche quel cattivone di Dennis Conner: sapeva dar spettacolo, vincere, perdere, insultare, essere eccessivo in tutto, ma lo ha fatto senza tradirmi.

Forse bisognerebbe rileggere bene il Deed of Gift capirne il suo spirito, che è ben definito e parla di sfida amichevole tra nazioni. Invece in nome dello sport moderno, un sistema prigioniero del marketing che sta divorando se stesso, mi vogliono far cambiare natura e obiettivi (mi viene l’ossidazione se penso ai monotipi) e si sono accaniti sulla mia formula tanti sedicenti espertoni, tanti sportivi che sanno vincere ma non amministrare, persone che hanno lavorato senza tener conto che è proprio nella mia leggenda, nei miei valori nascosti la mia forza e hanno pensato che dovevo somigliare a un qualsiasi circuito di Formula Uno. Io sono diversa e più nobile: non faccio rumore, non faccio clamore. Penso come faceva la Regina Vittoria prima spettatrice della grande regata vinta dalla goletta di cui porto il nome: “never explain, never complain”. Però a questo punto una cosa devo dirla: cari Defender e Challengers questa volta pensateci bene, perché se andate avanti così prima o poi il pubblico si sarà stancato di me. E allora, non potrete più vendere nulla di quel che poco che resta del sogno.