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Non tutto il popolo dei velisti conosce Matteo de Nora, un italiano di nascita con molti passaporti, la passione della vela e soprattutto della Nuova Zelanda  e della Coppa America.  Matteo ha iniziato a sostenere Team New Zealand dopo l’America’s Cup del 2000, fondando il “Mates Group of Supporters” e da allora non ha mai smesso di voler bene a Grant Dalton e ai suoi ragazzi. Sono state gioie e dolori, come la separazione da Dean Barker, per cui era un grande amico, dopo la sconfitta di San Francisco. Ma può essere considerato un vero salvataggio.  Negli anni il suo coinvolgimento, anche economico, è cresciuto e ha sostenuto il team nella partecipazione alla Volvo Ocean Race del 2011-12 e nelle edizioni della America’s Cup 34 e 35.
Con il suo supporto e collaborazione il team ha riconquistato la Coppa nel 2017 con le regate delle Bermuda e la ha difesa con successo nella edizione del 2021 a Auckland.
Nel 2011 il Governo neozelandese gli ha assegnato per il suo supporto alle campagne per l’America’s Cup della Nuova Zelanda e la ricerca medica neurologica il grado di Companion dell’Ordine del Merito della Nuova Zelanda.

Lo yacht design è il cuore del mercato della nautica e lei ha lavorato molto con i designer per le sue barche e per l’America’s Cup. Qual è la situazione attuale?
Il numero di barche a motore rispetto a quelle a vela è in aumento, ed è un peccato. Le imbarcazioni diventano sempre più grandi e il legame con il mare si attenua. Le grandi barche stanno sostituendo le case per chi vuole vivere vicino al mare, anche se a bordo il mare si sente sempre meno. L’industria dovrebbe concentrarsi sulla riduzione dell’impronta di carbonio e costruire imbarcazioni che non si affidino così tanto all’elettronica e alla tecnologia. Quando sono in mezzo all’oceano, mi sento più sicuro su una barca a vela.

Pensa che vedremo imbarcazioni da diporto foiling?
Sì. A lungo termine, il foiling arriverà sulle imbarcazioni da diporto. Qualsiasi cosa riduca il consumo di energia lo farà. Per quanto riguarda la velocità e le dimensioni, invece, ci scontreremo con un muro. Il limite sarà la realtà. Ho visto le foto di una nuova barca di 30 metri, che non è propriamente foiling ma può comunque sollevarsi dall’acqua per ridurre la resistenza. È un primo passo e questo fa la differenza.

Parliamo di transizione energetica e di idrogeno.
Se la domanda è: “L’idrogeno sostituirà l’energia elettrica nel lungo periodo?”. La mia risposta è sì, ma al momento non è economicamente praticabile. La differenza di prezzo non sarà colmata rapidamente perché il costo dell’energia generato con idrogeno è molte volte superiore alla tradizionale e per distribuirla e produrla occorre un’infrastruttura. Per prima cosa la tecnologia deve dimostrarsi valida, cosa che forse accadrà presto, e poi deve diventare commercialmente redditizia.

Sono d’accordo
I problemi sono immensi ma l’innovazione va sempre più veloce. L’intelligenza artificiale farà un’enorme differenza, non necessariamente nella qualità dell’innovazione ma nella sua velocità. La usiamo nel Team New Zealand, anche altri team la utilizzano. Tutti stanno cercando di implementarla.

Lei è un velista appassionato. Qual è la scintilla della sua passione?
La vela era l’unico modo per vedere e raggiungere certi luoghi con un’altra prospettiva. Se si viaggia con i megayacht, non sempre è possibile visitare i luoghi a cui mi riferisco. Per esempio, non si poteva navigare il Rio delle Amazzoni. Trent’anni fa si potevano visitare luoghi come le Galapagos, in America Centrale, o le isole Tuamotu nel Pacifico solo con una barca a vela. La mia passione non è stare in mezzo all’oceano con onde enormi e venti gelidi, ma la vela è il modo migliore per circumnavigare il globo.

Parliamo della Coppa America. Cosa ci dice della scelta di Barcellona per la 37ª edizione?
L’America’s Cup a Barcellona è un grande risultato. Grant Dalton dedica molto tempo all’evento. Sarà un evento importante per Barcellona, il primo dopo le Olimpiadi del 1992. La Generalitat, il Consiglio esecutivo della Catalogna e il Comune hanno accettato con entusiasmo questo progetto così grande. Soprattutto, hanno capito che questi eventi accelerano la crescita della città e lo sviluppo delle infrastrutture. Stanno facendo una quantità incredibile di lavoro. L’avrebbero fatto comunque, ma grazie all’America’s Cup, l’hanno fatto prima e a un costo inferiore a causa dell’attuale inflazione.

In che modo la Coppa aiuterà la città?
In media, un turista si ferma da uno a due giorni, se arriva o parte con una nave da crociera si ferma per 4 ore. Un tifoso dell’America’s Cup invece resterà in città da sette a dieci giorni. In un hotel ora ti chiedono: “siete qui per l’America’s Cup?”. Questo cambio è piuttosto impressionante, ed è uno dei motivi per cui l’evento si svolgerà alla fine di agosto. Perché non c’è bisogno di riempire gli hotel in agosto, luglio o giugno, ma di prolungare la stagione. Avevamo ricevuto offerte da altre città; vorrei citare Malaga, Jeddah e Cork. Barcellona però è al centro dell’Europa e può ospitare eventi con i J Class, i Maxi, i 12 metri S.I. e altro ancora.

Louis Vuitton torna alla Coppa, forse è utile anche per riportare un’atmosfera per certi versi mai dimenticata. Cosa ne pensa?
Sì, sicuramente. Louis Vuitton resta sinonimo di America’s Cup e riporterà molto più di un’atmosfera. È un partner che, come ha dimostrato in 40 anni di storia, oltre al prestigio, sa come garantire la crescita dell’evento attraverso una collaborazione positiva e costruttiva.

Cosa vi aspettate dall’AC40?
Tra quelli formati dalle donne e dai giovani, ci saranno 24 squadre provenienti da 12 Paesi, comprese le sei che partecipano alla Coppa. L’equipaggio deve essere composto atleti che hanno la nazionalità di bandiera. Credo che alcune di queste squadre non sarebbero venute se non avessimo spostato la sede in Spagna. Barcellona si è rivelata ancora una volta un’ottima scelta. Più grandi sono i numeri, più pesanti sono le responsabilità, poiché le infrastrutture, il numero di persone, la durata dell’evento e gli obblighi logistici aumentano in proporzione.

E gli sfidanti? Gli piace il Barcellona?
Penso che i team siano soddisfatti di Barcellona. Mi sarebbe piaciuta anche Malaga, perché è una città più piccola, e Cork perché è una bellissimo campo di regata e si parla inglese e sarebbe stato più facile per le squadre comunicare.

È ancora vero che vincerà la barca più veloce?
In un certo senso questo è sempre stato vero. Con il foiling siamo passati però a un altro livello, che continuo a scoprire ogni giorno. Una volta raggiunta una certa velocità, intorno ai 50 nodi, il comportamento del foil lancia sfide diverse: la cavitazione infatti apre le porte a problemi completamente diversi. Quindi l’obiettivo non è quello di raggiungere la velocità più alta in assoluto, ma di mantenere la velocità media più elevata per tutta la regata.

Il gioco dell’America’s Cup sta cambiando nelle acque di Barcellona?
Facciamo un paragone con le corse automobilistiche: se si guida su un circuito molto accidentato, si devono avere un diverso assetto delle sospensioni, un set di pneumatici particolare, ecc. A Barcellona, le imbarcazioni navigheranno nel in prevalenza mosso. Di conseguenza dobbiamo adattare la forma e le dimensioni dello scafo e del foil a queste condizioni.  Progettisti e ingegneri ci dicono che è necessario un approccio diverso rispetto ad Auckland, dove si navigava principalmente in acque piatte.

Parliamo sempre di tecnologia e a volte dimentichiamo degli uomini che conducono le barche.
Il ruolo dei velisti non è meno importante di prima. E, a queste velocità, ogni piccolo errore è molto più costoso rispetto a dieci anni fa. È interessante: la tecnologia aumenta, ma anche le capacità dei velisti devono migliorare. Adesso cinque secondi per prendere una decisione possono essere troppi. Non si può guardare solo 20 metri davanti a sé, ma 200 metri più avanti. La vela in Coppa America è cambiata molto dopo l’edizione a Bermuda. Questi sono ormai aeroplani sull’acqua.

Uno dei punti di forza di ETNZ è la presenza di un cantiere navale.
Un aspetto positivo di Team New Zealand è che siamo l’unico team ad avere il proprio cantiere navale. Durante il Covid, avevamo portato delle roulotte in cantiere per far dormire lo shore team.  Siamo stati in grado di esprimere molte ore di lavoro anche ogni volta che siamo rimasti chiusi in lockdown, cosa che sarebbe stata difficile per un cantiere commerciale. Avere un cantiere proprio significa essere più veloci: si possono fare errori ma anche correggerli. Non bisogna aspettare che un fornitore metta a posto le cose e così si possono stabilire delle priorità.

Cosa racconta di Grant Dalton?
Il team che vince l’America’s Cup deve gestire l’evento, decidere le regole, ecc. Credo che Grant faccia probabilmente il lavoro di 20 persone anche perché tutti vogliono avere a che fare direttamente con lui. Per quanto riguarda il team, il suo punto di forza è saper identificare i punti deboli, concentrarsi su di essi e migliorare. È interessante notare che alcuni dei migliori team manager di Coppa America di tutti i tempi (Blake, Coutts, Dalton) sono neozelandesi. Si conoscono tutti fin dalla scuola, dove la maggior parte dei ragazzi impara a navigare. Anche perché nessuna località della Nuova Zelanda dista più di 100 km dalla costa.

Con il ritorno della Coppa in Europa, come ci si può evolvere senza applicare formule del passato?
Si può continuare ad andare avanti senza trasformare l’evento in uno spettacolo come sta facendo la Formula Uno. Ci sono diversi modi per farlo. Ad Auckland abbiamo introdotto un livello di copertura completamente nuovo, grazie alla qualità delle trasmissioni televisive. Volevamo che i commentatori spiegassero al pubblico cosa stava accadendo e perché. Le TV libere da diritti hanno reso felici i tifosi e gli sponsor. Abbiamo introdotto regola di nazionalità piuttosto rigida e ricordato che la vela non è uno sport d’élite. La Nuova Zelanda e l’Italia sono i Paesi che seguono di più l’America’s Cup, ma stiamo lavorando per ampliare il pubblico.

Ha una squadra preferita?
Team New Zealand è forte, ma ricordo anche che nella storia dell’evento nessuna squadra ha mai vinto tre volte di fila. Oggi, NYYC American Magic sembra molto in forma e molto concentrato. Tom Slingsby è estremamente forte. Terry Hutchinson ha il talento e l’esperienza per organizzare la squadra e gestire la campagna. Direi che gli americani sono i favoriti tra gli sfidanti.

 

 

 

E’ un terremoto annunciato quello che si è prodotto ieri in Coppa America: Grant Dalton, CEO di Team New Zealand ha portato a termine il suo disegno di portarla fuori dalla Nuova Zelanda e ha annunciato che la prossima edizione sarà in settembre e ottobre 2024 a Barcellona. Lo ha fatto assieme al sindaco della città Ada Colau e al capo del Governo della Catalunya  Pere Aragonés. Per i puristi conservatori  è un colpo basso alla leggenda, per gli innovatori un passo avanti verso un pubblico più consistente e internazionale.  Dopo Valencia 2007, edizione memorabile, per questa seconda volta in Spagna  erano Cork in Irlanda, Malaga, Valencia, la stessa Auckland ma soprattutto Jeddah in Arabia Saudita dove i kiwi erano in delegazione lunedì prima della decisione finale. Chi  sarà lo sponsor della selezione sfidanti?  Tornerà la Prada Cup? Bertelli ha un diritto di prelazione da esercitare entro 90 giorni. Le alternative potrebbero essere uno storico ritorno di Louis Vuitton, o l’arrivo di Ineos che sostiene il Challenger of Record Britannia. Di sicuro torna Luna Rossa, con soddisfazione per il campo di regata europeo.  Torna anche Alinghi Red Bull con un team stellare.

I kiwi ci sono riusciti. Riportano a casa il trofeo che, conquistato una prima volta nel 1995 era partito per Valencia nel 2003 e poi per San Francisco nel 2010. Emirates Team New Zealand conquista la Coppa America per la seconda volta con orgoglio nazionale e con una preparazione meticolosa. In nuova Zelanda la vela è sport nazionale, un  vittoria sarà celebrata con il massimo delle grandi feste e celebrazioni. Il Viaduct Basin di Auckland, Queen Street saranno il percorso di un bagno di folla per il Ceo  Grant Dalton, il timoniere Peter Burling, lo skipper Glen Ashby e l’equipaggio tutto. Un insieme giovane e ricco e pieno di talenti, che oltre alla tecnica raffinata ha avuto il merito di saper mettere a punto la barca in maniera meravigliosa. Il punteggio della vittoria lascia pochi dubbi sulla supremazia del team kiwi, Oracle a quattro anni di distanza dal furioso “come back” di San Francisco non ha saputo esprimere lo stesso potenziale di crescita. Anzi, il timoniere James Spithill è sembrato appannato nei confronti di Burling. Si pensava che il giovane kiwi avesse delle soggezioni nei confronti del grande campione vincitore due volte del Trofeo. Invece no. Burling ha, in termini velici, “portato a spasso” l’avversario in più di una partenza.  Il punteggio sa molto di rivincita, anzi quasi di punizione otto regate vinte contro una, punteggio di 7 a uno. La regata finisce nelle lascime americane, Ellison sconcertato da quanto successo.

Quali sono le chiavi della vittoria? Sul piano umano l’incontro con la freddezza di Peter Burling, fresco vincitore di una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio che ha effettivamente un carattere spavaldo, lontano dalle incertezze di Dean Barker che lo ha preceduto, e l’esperienza di Glen Ashby, scelto anni fa per la sua esperienza nei multiscafi. Sul piano tecnico le innovazioni sono molte e danno la misura di come i designer, tra cui qualche italiano, hanno interpretato al meglio il regolamento. Intanto la produzione di energia a bordo (sotto forma di olio idraulico in pressione) ottenuto con quattro ciclisti e non con quattro “grinder”. Con le gambe si riesce a eprimere uno sforzo più continuativo oltre che percentualmente più potente. La mancanza di energia spegne la barca, è quasi sempre il motivo dell’interruzione del foiling. New Zealand ha imbarcato il ciclista professionista Simon van Velthooven per questo ruolo.  Anche altrove hanno cercato atleti specializzati: su Artemis un canoista per il ruolo di grinder.
Lo skipper e tattico Glen Ashby ha ideato un sistema di controllo della randa che non utilizza la tradizionale scotta, rimasta come memoria  dell’antico su tutte le altre barche,  ma un sistema idraulico che gli consente soprattutto di regolare il twist, parola difficile da tradurre più che l’angolo di scotta. Questo cambia le condizioni quando bisogna controllare lo sbandamento della barca con il variare del vento. E’ un po’ quello che sulle barche tradizionali è la funzione del vang. Altro grande vantaggio dei kiwi è stata la possibilità di poter utilizzare quattro configurazioni per i foil e non solo due come gli altri team. Il regolamento consente la costruzione di quattro foil (due coppie) e la variazione del 30% della loro superficie. I kiwi hanno realizzato un sistema smontabile delle “tip” (la parte terminale del foil) cui gli altri team hanno rinunciato, e questo rende più flessibile il sistema e il tuning della barca a seconda del vento previsto, operazione fondamentale per le migliori prestazioni. Il tuning dipende dalla intensità del vento:  con più vento pinne corte, perché con maggiore velocità il sostentamento è migliore, con poco vento pinne lunghe per restare in volo. La questione del volo è poi stata affrontata in maniera radicale. Volare significa infatti muoversi in un mondo a tre dimensioni e non più a due. Sinistra destra, alto basso. Per imparare alla perfezione i kiwi si sono rivolti a un mago dei droni, un fotografo che è stato in grado di far volare il suo drone davanti alle barche a cinquanta centimetri dall’acqua. Con il suo aiuto i tecnici hanno sincronizzato i dati dati delle telecamere di bordo con le prestazioni per riuscire a indagare meglio ogni evento e da questo imparare la conduzione. Un sintomo in più di come queste barche siano entrate nella generazione “videogioco” e come i timonieri nativi abbiano riflessi e tecniche per poterle condurre. Per carità: ci vuole anche tutto il talento velico per farlo.

La Coppa nella sua valigia Louis Vuitton vola verso la Nuova Zelanda per ritrovare il suo posto nella sala al primo piano del Royal New Zealand Yacht Squadron. Non ci sono solo risvolti sportivi ma anche economici per il piccolo stato australe. L’industria nautica vale un miliardo di euro ed è considerata tra le prima del paese, che ha una forte vocazione agricola. Nel 2003 perderla è stato un duro colpo, che era stato sottovalutato perfino dal Governo. Adesso i kiwi faranno di tutto per tenerla a lungo nella City of Sails.

Alan Bond, il primo sfidante che sia riuscito a strappare l’America’s Cup agli americani (nel 1983) diceva: “chi si illude che la Coppa non sia una questione economica è un ingenuo”. Bond, australiano qualche anno dopo la vittoria ha fatto bancarotta. Era stato in grado di comprare nel 1987 gli Iris di Van Gogh per le cifra più alta mai battuta per un quadro fino a quel tempo, 53,9 milioni di dollari. Cifra poi battuta con un quadro di Jasper Jones. E la Coppa che si è corsa a Bermuda non va tanto lontano da questa regola aurea. Le isole sono state scelte per il campo di regata per la loro conformazione, ma anche per gli investimenti del Governo locale sia nei confronti del territorio sia verso l’organizzazione gestita dal defender Oracle e da Acea (America’s Cup Event Authority) di cui era presidente Russell Coutts. Un totale di 77 milioni di dollari, di cui 15 per Acea, 22 per infrastrutture (che restano), più meno quello che spende un team per partecipare.

Misurare il beneficio per le isole che sono considerate il luogo più costoso del mondo non è facile. Una bottiglia di acqua neozelandese o anche uno dei nostri marchi costa al supermercato quasi tre dollari, una mela un dollaro e mezzo. Il tassista interrogato risponde “è andata bene, quasi tutti hanno avuto qualcosa, è arrivato qualche migliaio di persone”. Altri pareri non coincidono, qualcuno scrive di alberghi che non si sono riempiti di tifosi e pubblico ma dei soliti turisti in cerca di spiagge.  Alle Bermuda abitano 65000 persone, e lo spostamento di qualche migliaio di persone che in una grande città di mare farebbe sorridere qui diventa sensibile. Nei giorni migliori degli eventi organizzati a Napoli si è arrivati a contare 50/60 mila persone presenti sul lungo mare, e non era vera Coppa America.   ACEA ha cercato di portare a casa denaro ovunque, dai diritti Tv ai biglietti. La produzione Tv meravigliosa per un evento di barche, cui sono dedicate 120 persone come a San Francisco. Tuttavia l’operazione è riuscita parzialmente, i dati di pubblico presente fisicamente sono molto modesti: il villaggio è pieno la sera quando ci sono i concerti e i Dj set che di giorno durante le regate. In molti casi i telespettatori hanno preferito rinunciare alle dirette tv per non pagare gli abbonamenti, anche alle app per tablet. Come ha dichiarato Matteo de Nora Team Principal di ETNZ in una intervista il problema della diffusione Tv diventa cruciale per assicurare pubblico alla manifestazione.

C’è anche un retroscena difficile da verificare ma di cui si parla con una certa insistenza. Il board dei director di Oracle avrebbe pregato Larry Ellison di spendere meno per la Coppa e lui stesso si sarebbe un poco annoiato del giocattolo e avrebbe detto ai velisti “cercate di essere autosufficienti”, ovvero pagate le spese con l’organizzazione e gli sponsor. Questa posizione potrebbe ragionevolmente spiegare anche la perdita di competitività del team velico e la sconfitta che si prospetta, ma non si spiega con il patrimonio personale stimato di Ellison in 50 miliardi e la sua natura di padre padrone dell’azienda. Per Emirates Team New Zealand  è facile spendere poco: sono abituati all’economia da sempre, la loro campagna vincente del 1995 è stata una delle più misurate della storia, e da allora è difficile che il denaro esca dal portafoglio senza motivo. Il team kiwi è sostenuto da tutta la nazione, in altre edizioni il Governo è intervenuto direttamente perché ha capito, purtroppo solo dopo aver perso nel 2003, che la Coppa significa avere un driver per l’economia del paese dove l’industria nautica che vale circa 1 miliardo di euro è tra le prime del paese e il turismo aveva goduto di una accelerazione, così come gli investimenti edilizi a Auckland. Una situazione completamente diversa, per interessi e dimensioni, da quella che si vive a Bermuda.

Per il dream team americano invece non avere denaro a fiumi diventa presto soffocante. E’ anche qualcosa di insito nei caratteri delle due nazioni. Quanto hanno speso? Sono stime ma ragionevoli: 50 milioni di dollari per i neozelandesi, 90 milioni di dollari per gli americani. Cifra simile per gli svedesi di Artemis. Solo gli inglesi di Land Rover BAR, guidati da sir Ben Ainslie si possono considerare i grandi battuti della edizione 35 della Coppa hanno speso di più dichiarando un budget di 110 milioni, di cui circa 60 raccolti tra gli sponsor maggiori, una ventina dalla città di Portsmouth che ha messo a disposizione base e strutture, più le donazioni degli stakeholder tra cui numerosi lord e sir. Gli altri sindacati ovvero i francesi di Groupama, i giapponesi di Softbank Team Japan, più o meno valgono 30 milioni e sono stati sostenuti da Oracle stesso con forniture di design e materiali. Uno dei quesiti per la prossima edizione è proprio come non perdere partecipanti, come riuscire a mantenere alto il livello di attenzione. C’è chi sogna le grandi edizioni della Coppa: 87 in Australia, 92 a San Diego, 2007 a Valencia, con tante squadre interessi ed eventi. La ricetta o la responsabilità  è in mano al prossimo vincitore.

Ernesto Bertarelli è alle Bermuda con il suo favoloso Vava2, nave a motore su cui ha lavorato per due anni al design, che è costata altri due anni per la costruzione. Si sposta ogni giorno cambiando spot nella baia. Segue in particolare il circuito Red Bull dove è iscritto un team svizzero, ma è qui ovviamente per la Coppa America. La sua passione. Sono tutti convinti che ritornerà. Lo farà, probabilmente, se restano i multiscafi, che gli sono sempre piaciuti e con cui ha corso il Bol D’Or la famosa regata su lago di Ginevra. Berterelli e il suo Alinghi hanno scritto la storia della Coppa America dal 2000, quando si è presentato a Auckland per assumere Russell Coutts e i suoi fedelissimi, fino al 2010 anno in cui è stato sconfitto da Larry Ellison con BMW Oracle. “Sono circolate voci sulla mia intenzione di fare il Challenger of Record – ha detto – non lo farò”.

Possiamo dire che finalmente si gode la Coppa America da spettatore?

“Sono qui sereno, neutrale, me la godo come una bella festa e con me sono tutti simpatici. Per una volta non ho nessun problema con nessuno, mi diverto e non è lavoro. La Coppa fa parte della mia vita ce l’ho nel sangue.  Sono stato invitato sulla barca francese da Franck Cammas ed è stato molto divertente. La cosa di cui sono più orgoglioso oggi sono i dieci giorni che ho passato qua e l’amicizia con le persone che ho incontrato in questi anni. Da chi lava il tender ai giornalisti, agli atleti. Mi hanno accolto bene anche dopo una edizione mancata”.

Le piace Emirates Team New Zealand?

“Sono tutti sorpresi dalla velocità dei kiwi e ancora una volta hanno dimostrato di avere inventività: anche solo da vedere la barca è più bella di quella americana. Nel primo week end c’è stato il vento giusto vediamo se aumenta cosa succede, non è ancora fatta”.

E’ vero che ha fatto la pace con Russell Coutts?

“Ho visto Russell,  sono andato a casa sua e abbiamo discusso di tutto ma soprattutto non di vela. E’ sempre difficile sapere cosa pensa lui ma credo di alcune cose sia soddisfatto. Il prodotto televisivo è buono, le regate delle selezioni sono state interessanti combattute”.

Pensa che Peter Burling sia il Russell Coutts del nuovo decennio?

“Si, ha proprio lo sguardo del killer. Penso che sia un vero talento e mi sembra che sia anche un ingegnare capace”.

Se vince la Nuova Zelanda ci sarà un ritorno ai monoscafi?

“Io penso che sarebbe un grandissimo errore perché oggi se si deve fare un monoscafo moderno bisogna comunque aggiungere qualcosa sotto, foil derive basculanti, e la barca diventa complicata. Personalmente non credo fatto al monoscafo, agonisticamente ho iniziato con i multiscafi e li trovo entusiasmanti. Bisogna anche comprendere che c’è un problema di concorrenti, quando si potevano costruire più barche una delle due utilizzate in una edizione poteva andare a un team che entrava, venduta o in prestito nella successiva.  Adesso non c’è questa possibilità ed è difficile fare esperienza e avvicinarsi al livello necessario e acquisire velocità. Penso che il problema sia lo stesso qualunque team vinca. Sarà difficile trovare concorrenti”.

Che formato suggerisce per una prossima Coppa, se fosse nella stanza dei bottoni a decidere cosa proporrebbe?

“Se dovessi fare il COR di sicuro manterrei le barche, queste perché ce ne sono già sei. Darei un piccolo vantaggio alle squadre che entrano come si fa in certe classi dove ai nuovi arrivati si danno un paio di vele in più. Una squadra nuova potrebbe avere qualche foil in più, in maniera che se sbaglia clamorosamente può rientrare in gioco. Cercherei di fare la prossima edizione tra due o tre anni al massimo e non quattro.  Due anni non è male anche per una squadra che arriva nuova. I costi sono minori. Farei molte più regate di circuito. Lascerei stare gli AC 45 che non significano più nulla e non vanno in foil con poco vento. Farei  al più presto regate di circuito con le barche di Coppa”.

La nazionalità è un altro argomento su cui si discute molto.

“Se devo essere egoista una volta sarebbe stato un problema per la Svizzera, adesso abbiamo una generazione di giovani che hanno 20 / 25 anni e quindi molti più marinai che all’epoca. La Coppa ha più bisogno di team che della regola della nazionalità e quindi dobbiamo trovare un equilibrio. Nessuno vuole tornare a una situazione come quella del 2010, così conflittuale. Però il protocollo fa sempre in modo che il defender abbia vantaggi e quando una delle squadre ha vantaggi c’è sempre una ragione per discuterne”.

 Cosa le è piaciuto meno di quello che è successo qui?

“Non correi ripetermi  ma la cosa che pesa di più sull’evento è il numero delle squadre. Si può cominciare a far discussioni su una cosa o l’’altra. Ma il numero è importante.

Cosa bisogna fare per richiamare più squadre?

“Purtroppo la Coppa continua a essere una cosa non proporzionata in termini di costo e resa per gli sponsor.  La Formula Uno costa molto di più ma rende molto di più e la relazione tra incassi e costi è più equilibrata. Quando mi guardo attorno trovo che chiunque sia il defender deve porsi questa domanda. Deve fare molta attenzione al relativo costo della squadra a confronto dell’incasso. A Valencia siamo arrivati a dare 10 milioni di euro a ETNZ per il secondo posto.  Eravamo comunque riusciti a rinnovare il sistema e a questo non siamo ancora tornati. Ci vogliono più squadre e per avere più squadre ci vogliono meno costi. Avevamo Cina e Sud Africa,  un gioco più aperto”.

 Si è rivisto con Larry Ellison?

“Non ho ricostruito un rapporto con Ellison. Come ho incontrato Russell Coutts incontrerei Larry. Oggi non ho più risentimento e ho solo esperienza. Il risentimento non è una buona cosa. Ho imparato certe cose, certamente ho fatto degli errori e so che li ho fatti. Ma questo è dietro di me. La vita è troppo corta”.

Tornerà alla Coppa America, ci sono delle condizioni per tornare?

“Quanto ho fatto la Coppa nel 2000 avevo varie ragioni per farla Oggi ce ne sono molte meno. La principale è che l’ho già vinta due volte e quindi sono meno accanito che certi altri. L’altra è che penso che ci sia troppa incertezza e probabilmente la Coppa ha un momento critico peggiore di altre volte. Forse quando Ellison ha iniziato la battaglia legale eravamo messi male, forse peggio. Ma questo può essere un momento simile. Adesso è difficile lanciare una sfida con l’incertezza che resta sulle barche da usare. E’ tutto molto difficile per una nuova squadra. Bisogna aspettare a vedere chi vince e cosa ci propongono. Speriamo che non ci facciano aspettare per sei mesi come  fatto in passato”.

Quanto può esser un budget sostenibile per squadra.

“Ho sentito diverse cifre, dai trenta milioni di euro per i francesi agli 80 milioni di pound per gli inglesi. Gli inglesi dicono che serve molto meno e i francesi dicono che con trenta milioni non è abbastanza. Dovremmo avere squadre che con 30 milioni ce la fanno a fare una buona partecipazione e con 50 possono vincere.  Finora non ho mosso nessuna pedina”.

p.s. L’intervista è stata realizzata assieme agli inviati della Gazzetta dello Sport

Inizia la edizione numero 35 della America’s Cup. Si corre alle Bermuda, isole in mezzo all’Atlantico che oltre alle braghe corte da indossare con i calzini lunghi hanno ispirato a William Shakespeare il tema de La Tempesta: nei bar di Londra raccontano del naufragio della Sea Venture nel 1609 sui banchi di corallo a nord dell’isola e lui elabora.  La battaglia navale che si annuncia molto intensa è tra gli attori nella Coppa America numero 34 di San Francisco, è una re-match con qualche cambiamento: la misura delle barche, un timoniere. Il defender è Oracle, il sindacato del ricchissimo Larry Ellison condotto da Russell Coutts (uomo che ha vinto di più in Coppa)  che ha affidato l’equipaggio a James Spithill. Il challenger è Emirates Team New Zealand, che partecipa al match come defender o challenger fin dal 1995 con la sola interruzione del 2010. Il team è protetto da Matteo De Nora, di origini italiane, condotto da Grand Dalton un coriaceo organizzatore. Il timone è affidato a Peter Burling.  Si corre solo nei week end e questo lascia un buco enorme nel pubblico, ma apre la possibilità ai team di “ricostruire” le barche. E’ un vero vantaggio? Mica tanto, perché lo è per entrambi. Si corre al meglio di quindici regate, quindi la Coppa va al primo che vince sette regate. Sono tante. Il programma potrebbe finire domenica prossima o lunedì, se tutto fila come da programma. Per il primo week end  previsto vento debole che dovrebbe favorire i neozelandesi.

Nel 2010 a Valencia James Spithill a 31 anni è stato il più giovane timoniere a vincere la Coppa America, governava il mostruoso trimarano BMW Oracle e ha battuto Alinghi. In questi giorni Peter Burling può battere il suo record di gioventù: ha suoi 26 anni un sorriso neozelandese, la sua mascella forte ha una vaga somiglianza con quello sir Edmund Percival Hillary che a 34 anni ha scalato per l’Everest meritando di finire ritratto sulle banconote da 5 dollari neozelandesi. A Peter potrebbe davvero capitare un destino simile: la Nuova Zelanda vuole e ha bisogno della Coppa, non è solo una questione sportiva è per dare impulso a industria e turismo. Si sono già incontrati nelle fasi preliminari e Oracle ha vinto il confronto, tuttavia non è determinante: tutti i team sono cresciuti in questa fase di allenamento.

Nel mondo e nel villaggio della Coppa quasi tutti tifano kiwi, alle Bermuda sono gli unici tifosi, come sempre arrivati numerosi e pieni di bandiere, kiwi di pezza e infradito. I kiwi piacciono, sarà il peso delle sconfitte o più verosimilmente quel filo sottile che unisce il pubblico dagli atleti autentici.
Intendiamoci, non che l’equipaggio di Oracle non lo sia. Sarebbe un’offesa, chi non ricorda Spithill poco più che adolescente che in partenza a Auckland ingaggiava lotte feroci  nella Coppa del 2000. James Spithill e Tom Slingsby  sono marinai raffinati, e sulla carta forse pure più forti di Emirates almeno nel match race e infatti quello che si teme di più è l’aggressività di Spithill in partenza, dove sanno tutti che non lo batte nessuno.   Quello che non piace è la sottile arroganza del team americano, che ha sempre strappato il risultato con una certa violenza e poi per aver imposto al mondo conservatore della vela i catamarani volanti e un loro programma di regate già più o meno pronto per la prossima edizione, da correre nel 2019 con le stesse barche.

Quattro anni gli americani fa partivano con due punti di svantaggio, meritati per aver “taroccato” gli AC 45, le barche con cui correvano il circuito preliminare. Adesso ne hanno uno di vantaggio per aver vinto le fasi preliminari dove regatavano assieme ai challenger. Un punto  che può essere determinante come riconosciuto da tutti. Attenzione, nel gioco dei punteggi è un meno uno per New Zealand, significa che Oracle deve comunque vincere sette regate e i kiwi otto.

Non solo quello, hanno un vantaggio un poco più complesso da spiegare. I neozelandesi in qualità di sfidanti hanno avuto la possibilità di costruire una sola barca. Ai defender invece due che in realtà non hanno in realtà costruito. Ma… Softbank Team Japan ha usato una piattaforma  (di dice così del catamarano) costruita dal cantiere di Coutts ed Ellison in Nuova Zelanda praticamente identica a Oracle e per i requisiti di nazionalità bastano poco più di due metri di prua costruita nel paese di bandiera per far diventare magicamente tutta la barca di quella nazionalità. Insomma, cambiando le due prue rosse la barca giapponese diventa americana. Potrebbe servire per una capriola, per un guasto. Questo potrebbe consentire agli americani di essere un poco più aggressivi, meno conservativi soprattutto in partenza.

Sono una vecchia signora che ha oltre un secolo e mezzo di vita: devo ammettere che è stata una vita burrascosa, piena di avventure di ogni genere. Il primo a prendermi a martellate è stato un esperto gioielliere operaio di Garrard & Co nel 1848, doveva sistemare alcune cose imperfette della mia fusione. Dopo, purtroppo, lo hanno fatto tanti altri, ma ne sono uscita quasi sempre bene, più in forma di prima, più lucida e desiderata. Nel 1851 sono stata donata dal marchese Henry William Paget per essere il premio della regata che ogni anno si corre attorno all’isola di Wight. Da allora mi hanno chiamato in tanti modi: un po’ volgarmente Coppa delle Cento Ghinee, poi America’s Cup, a qualcuno piace chiamarmi Auld Mug termine confidenziale di cui quasi tutti sbagliano lo spelling.

Per qualche giornalista sono stata anche il vaso di Pandora, e di questi tempi non ha tutti i torti. Mi hanno davvero desiderato in tanti, soprattutto i ricchissimi della terra con la passione della vela, ma ho fatto divertire anche tanti giovani e solidi velisti (i miei preferiti…) e mi sembra di continuare a farlo.

Diciamoci la verità: per me si strappano i capelli ancora in tanti, di tutte le età e di tutti i portafogli. La mia età, la mia leggenda, mi hanno fatto diventare un simbolo: non solo dello sport di cui resto il trofeo più antico che ancora si disputa, ma anche di quel magico intreccio che lega sport, nazioni, economia, tecnologia. A mio modo sono un patrimonio dell’umanità, non solo la proprietà dell’ultimo vincitore che mi tiene nella sua bacheca per quanto gli riesce. Per anni tecnologia è stata la parola magica e necessaria per vincere e partecipare, perché la mia natura è sempre dare una spinta inesauribile verso il futuro: sono vecchia, ma sono come un ago della bussola che indica la direzione che prenderà il mondo.

Vi dico che… adesso faccio un po’ fatica a farlo. A San Francisco (per fortuna) sono riuscita a metterci del mio nello spettacolo, come riesco sempre a fare. Ma mi sento un po’ stanca e vorrei trovare maggior collaborazione di tutti. Anche questa volta il defender Oracle è stato molto tiranno e ha stancato il Challenger of Record fino a farlo ritirare: il secondo in due edizioni, dopo Mascalzone Latino, converrete tutti è troppo. E poi quella Corte Suprema sempre necessaria per mettere ordine tra chi non sa essere sportivo. I cinque challenger della prossima volta mi sembrano pochi: Luna Rossa, Artemis, Team France, New Zeaand e Ben Ainslie Team. Insomma, vorrei qualcosa di più, più nazioni, più team, più spettacolo. Sbaglio? Certo direte, pochi ma buoni, ma sembra un po’ un alibi.

Si discute tanto sul mio argento su quale regno sia stato migliore o peggiore tra quello di Ernesto Bertarelli o l’attuale di Russell Coutts/Larry Ellison (chi decide davvero?). A me sono piaciuti tutti e due, per motivi diversi sono stati dei grandi protagonisti. Però devo confessare che, se ripenso alle grandi edizioni dell’Australia o di San Diego dove alla mia forza si mescolava un’atmosfera ancora leggera dove il fair play aveva il suo spazio, io mi sento un poco più povera, e potete capire che per una regina non è certo degno.  Se proprio devo dirla tutta mi manca anche quel cattivone di Dennis Conner: sapeva dar spettacolo, vincere, perdere, insultare, essere eccessivo in tutto, ma lo ha fatto senza tradirmi.

Forse bisognerebbe rileggere bene il Deed of Gift capirne il suo spirito, che è ben definito e parla di sfida amichevole tra nazioni. Invece in nome dello sport moderno, un sistema prigioniero del marketing che sta divorando se stesso, mi vogliono far cambiare natura e obiettivi (mi viene l’ossidazione se penso ai monotipi) e si sono accaniti sulla mia formula tanti sedicenti espertoni, tanti sportivi che sanno vincere ma non amministrare, persone che hanno lavorato senza tener conto che è proprio nella mia leggenda, nei miei valori nascosti la mia forza e hanno pensato che dovevo somigliare a un qualsiasi circuito di Formula Uno. Io sono diversa e più nobile: non faccio rumore, non faccio clamore. Penso come faceva la Regina Vittoria prima spettatrice della grande regata vinta dalla goletta di cui porto il nome: “never explain, never complain”. Però a questo punto una cosa devo dirla: cari Defender e Challengers questa volta pensateci bene, perché se andate avanti così prima o poi il pubblico si sarà stancato di me. E allora, non potrete più vendere nulla di quel che poco che resta del sogno.