La piccola flotta della Volvo Ocean Race e’ partita da Alicante con rotta giro del mondo a vela in equipaggio. Sei barche con otto uomini di equipaggio, una con undici donne piu otto operatori velisti che dovranno raccontare al mondo oceani, tramonti, albatross, tempeste e bonacce. Sono solo sette gli eredi di una tradizione storica iniziata nel 73 quando al posto dei cibi liofilizzati si imbarcavano prosciutti e spaghetti. Davanti alla prua ci sono 38739 miglia nautiche, divise in undici tappe. La grande sfida tra uomo e natura trova un grande palcoscenico. Non c’e una grande differenza tra questi marinai e quelli che per secoli hanno scoperto terre incognite, fondato citta e vinto battaglie. Un sentimento per il mare sempre al confine tra amore e dannazione. Tra la curiosita’ dello scopritore James Cook, l’ostinazione del capitano Achab, il cattivo di Moby Dick, la ostinata stupidita’ di McWhirr il capitano che Joseph Conrad fa passare per l’occhio del ciclone.
A bordo dei sette concorrenti ci sono grandi campioni, 7 medaglie olimpiche, velisti e veliste di 18 nazioni che per nove mesi spegneranno la lampadina della vita in famiglia per pensare solo alla velocita’ della loro barca. Per la prima volta nella lunga storia, si corre con imbarcazioni monotipo della classe VOR 65, per alcuni e’ una innovazione verso lo spettacolo, che sara’ totale quando si decideranno finalmente a tornare alla classifica per somma dei tempi, come merita ogni corsa a tappe, la cosa che il pubblico capisce meglio. La prima tappa si conclude a Citta del Capo dopo quasi 6500 miglia, e’ una delle rotte piu antiche della storia della navigazione di scoperta, aperta nel 500 dai marinai del principe Enrico il Navigatore alla ricerca di una rotta che li portasse verso le spezie orientali senza essere costretti ai dazi delle repubbliche di Genova e Venezia. Si naviga verso sud, prima a sfiorare il Brasile e poi dentro verso il vento della costa africanta. Fatica? Tanta, poco sonno e tanto rischio, in una tappa del genere si perdono fino a dieci chili e si e’ fortunati a dormire tre ore al giorno. Per questo questi velisti sono atleti veri, preparati con cura fisica e mentale. Favoriti? Su Abu Dhabi comanda un mito della vela inglese Ian Walker, alla seconda partecipazione con lo stesso team, trasformera la sconfitta di tre anni fa in esperienza. Lo spagnolo Mapfre imbarca Iker Martinez e il francesce Michel Desjoyeaux, velista solitario in prestito a un equipaggio vero. Team Brunel e condotto dal veterano degli skipper, l’olandese Bouwe Bekking alla settima partecipazione. Ci sono i cinesi di Donfeng guidati dal francese Charles Caudrelier, vincitore come capoturno tre anni fa con Groupama. Team Alvimedica e condotta da Charles Enright e imbarca l’unico velista italiano presente Alberto Bolzan, raffinato timoniere che ha gia’ conquistato il soprannome di Ferrari. Potrebbe essere lui, dopo questa esperienza, lo skipper di una prossima barca italiana fortemente voluta dall’organizzazione e sogno di molti altri velisti nazionali. Team Vestas Wind ha skipper Chris Nicholson e imbarca alcuni solidissimi neozelandesi come Tony Rae e Rob Salthouse. Infine le ragazze, equipaggio femminile guidato da Sam Davies: per equilibrare le forze in campo possono correre in undici, che significa avere non solo sei mani in piu’ – come dice Sam – ma anche tre cervelli femminili”.
Sono una vecchia signora che ha oltre un secolo e mezzo di vita: devo ammettere che è stata una vita burrascosa, piena di avventure di ogni genere. Il primo a prendermi a martellate è stato un esperto gioielliere operaio di Garrard & Co nel 1848, doveva sistemare alcune cose imperfette della mia fusione. Dopo, purtroppo, lo hanno fatto tanti altri, ma ne sono uscita quasi sempre bene, più in forma di prima, più lucida e desiderata. Nel 1851 sono stata donata dal marchese Henry William Paget per essere il premio della regata che ogni anno si corre attorno all’isola di Wight. Da allora mi hanno chiamato in tanti modi: un po’ volgarmente Coppa delle Cento Ghinee, poi America’s Cup, a qualcuno piace chiamarmi Auld Mug termine confidenziale di cui quasi tutti sbagliano lo spelling.
Per qualche giornalista sono stata anche il vaso di Pandora, e di questi tempi non ha tutti i torti. Mi hanno davvero desiderato in tanti, soprattutto i ricchissimi della terra con la passione della vela, ma ho fatto divertire anche tanti giovani e solidi velisti (i miei preferiti…) e mi sembra di continuare a farlo.
Diciamoci la verità: per me si strappano i capelli ancora in tanti, di tutte le età e di tutti i portafogli. La mia età, la mia leggenda, mi hanno fatto diventare un simbolo: non solo dello sport di cui resto il trofeo più antico che ancora si disputa, ma anche di quel magico intreccio che lega sport, nazioni, economia, tecnologia. A mio modo sono un patrimonio dell’umanità, non solo la proprietà dell’ultimo vincitore che mi tiene nella sua bacheca per quanto gli riesce. Per anni tecnologia è stata la parola magica e necessaria per vincere e partecipare, perché la mia natura è sempre dare una spinta inesauribile verso il futuro: sono vecchia, ma sono come un ago della bussola che indica la direzione che prenderà il mondo.
Vi dico che… adesso faccio un po’ fatica a farlo. A San Francisco (per fortuna) sono riuscita a metterci del mio nello spettacolo, come riesco sempre a fare. Ma mi sento un po’ stanca e vorrei trovare maggior collaborazione di tutti. Anche questa volta il defender Oracle è stato molto tiranno e ha stancato il Challenger of Record fino a farlo ritirare: il secondo in due edizioni, dopo Mascalzone Latino, converrete tutti è troppo. E poi quella Corte Suprema sempre necessaria per mettere ordine tra chi non sa essere sportivo. I cinque challenger della prossima volta mi sembrano pochi: Luna Rossa, Artemis, Team France, New Zeaand e Ben Ainslie Team. Insomma, vorrei qualcosa di più, più nazioni, più team, più spettacolo. Sbaglio? Certo direte, pochi ma buoni, ma sembra un po’ un alibi.
Si discute tanto sul mio argento su quale regno sia stato migliore o peggiore tra quello di Ernesto Bertarelli o l’attuale di Russell Coutts/Larry Ellison (chi decide davvero?). A me sono piaciuti tutti e due, per motivi diversi sono stati dei grandi protagonisti. Però devo confessare che, se ripenso alle grandi edizioni dell’Australia o di San Diego dove alla mia forza si mescolava un’atmosfera ancora leggera dove il fair play aveva il suo spazio, io mi sento un poco più povera, e potete capire che per una regina non è certo degno. Se proprio devo dirla tutta mi manca anche quel cattivone di Dennis Conner: sapeva dar spettacolo, vincere, perdere, insultare, essere eccessivo in tutto, ma lo ha fatto senza tradirmi.
Forse bisognerebbe rileggere bene il Deed of Gift capirne il suo spirito, che è ben definito e parla di sfida amichevole tra nazioni. Invece in nome dello sport moderno, un sistema prigioniero del marketing che sta divorando se stesso, mi vogliono far cambiare natura e obiettivi (mi viene l’ossidazione se penso ai monotipi) e si sono accaniti sulla mia formula tanti sedicenti espertoni, tanti sportivi che sanno vincere ma non amministrare, persone che hanno lavorato senza tener conto che è proprio nella mia leggenda, nei miei valori nascosti la mia forza e hanno pensato che dovevo somigliare a un qualsiasi circuito di Formula Uno. Io sono diversa e più nobile: non faccio rumore, non faccio clamore. Penso come faceva la Regina Vittoria prima spettatrice della grande regata vinta dalla goletta di cui porto il nome: “never explain, never complain”. Però a questo punto una cosa devo dirla: cari Defender e Challengers questa volta pensateci bene, perché se andate avanti così prima o poi il pubblico si sarà stancato di me. E allora, non potrete più vendere nulla di quel che poco che resta del sogno.
Una decisione che a noi appare improvvisa getta ancora una volta il magico mondo della Coppa America nell’incertezza. Il Challenger of Record, l’australiano Hamilton Island Yacht Club per la famiglia Oatley (soprattutto vino e resort nei loro interessi) con uno statement ha manifestato l’intenzione di ritirare la sfida, confermata poi con manovra renziana (siamo in tempi moderni) via twitter. Un fulmine a ciel sereno: sebbene con un equilibrio precario la edizione 35 del più antico Trofeo velico stava andando avanti. E dire che solo un paio di settimane fa l’uomo forte di Team Australia Iain Murray era a Malcesine per allenamenti e regate su mezzi “foiling”, il singolo Moth e il catamarano GC 32 e si era affacciato alle regate Star. Aveva lasciato dichiarazioni critiche con Oracle: “è stata dura ma abbiamo portato a casa un Protocollo, una base decente che speriamo di modificare nei punti oscuri” ma non sembrava vicino a un passo del genere. Poi però, pochi giorni fa, un meeting tra sfidanti e defender ha riaperto il solco tra le incertezze e le pretese di Russell Coutts, cui Larry Ellison lascia più o meno fare tutto quello che vuole, su date e luoghi che mancano ancora rendendo ogni programma del tutto incerto. Cosa si propone agli sponsor? Alcuni team hanno preso la decisione di esserci in ogni caso come Luna Rossa e Artemis, altri hanno bisogno di attrarre sponsor come quello inglese di Ben Ainslie o i kiwi di New Zealand e altri che stavano lavorando per arrivare in tempo e le sedi proposte delle isole Bermuda o San Diego non sembrano molto interessanti. E poi, anche i due finora pazienti Patrizio Bertelli e Torbjörn Törnqvist potrebbero svegliarsi un mattino con la mosca al naso. Non sarebbe la prima volta. Insomma Bob Oatley, un energico signore australiano che aveva lanciato la sfida con la fiducia di poter riportare la Coppa a essere un evento per velisti, dopo mesi di estenuanti trattative ha mandato tutti a quel paese, così come aveva fatto Vincenzo Onorato con Mascalzone Latino, più o meno per gli stessi problemi, lievitazione dei costi verso cifre impreviste, difficoltà delle relazioni con sua altezza Coutts che ha imposto mediazioni difficili da digerire. E’ la seconda volta in due edizioni che il Challenger of Record si ritira dal suo ruolo e prima in quasi due secoli non era mai successo. Oatley, un passato di regatante storico e molti record con le sue barche da regata che chiama Wild Oats, deve proprio aver pensato “ma chi me lo fa fare in questa gabbia di matti, torno alle mie vigne sulla mia isola privata”. Adesso il ruolo di Challenger of Record potrebbe passare a Luna Rossa oppure ad Artemis, i due che hanno presentato sfida e deposito monetario (prima rata da un milione di dollari) formale. Ma qui c’è il pasticcio: gli americani non avevano ancora accettato le due sfide, pretendendo per farlo di arrivare almeno a quattro sfidanti, e New Zealand e Ainslie a quanto pare stavano aspettando il termine dell’8 agosto per farlo. Ben Ainslie infatti ha fatto l’annuncio con festa, principessa e baronetti ma non il versamento e gli atti formali. Dunque a chi toccherebbe la successione? Di solito conta la cronologia, e se conosciamo un poco il carattere di Luna Rossa non vorrà prendersi questa grana di poco onore e molto onere. Quanto successo potrebbe, anzi dovrebbe, riaprire il dibattito sul Protocollo che se non viene firmato da un altro Challenger non ha nessun valore. Siccome piaceva poco questa potrebbe essere l’occasione per ricominciare a litigare nel tentativo di togliere qualche vantaggio al Defender e costringerlo (letteralmente) la dove Murray non era riuscito. La Coppa, è il caso di dirlo, è il alto mare… Ancora una volta peccato e nostaglia di quando esistevano i riferimenti, che non è un tempo tanto lontano.
La quinta sfida alla Coppa America di Patrizio Bertelli e di conseguenza di Prada è quasi lanciata: mancano alcuni aspetti formali ma quello che conta è che la base allestita a Cagliari sta già lavorando a tutta forza agli ordini dello skipper Max Sirena per produrre velocità e allenare campioni. Oggi la notizia è stata diffusa urbi et orbi con un comunicato interattivo, qualche video senza sonoro e comunicati stampa. La domanda da porre ai lettori e in assoluta amicizia a Max Sirena è: bisogna parlare di chi non vuole si parli di lui? Ovviamente interpretando questo come un desiderio riservatezza e non una volontà cui si è costretti per altri motivi, base non pronta, Protocollo difficile. In questa scelta forse ci sono risvolti semiologici e forse anche un modo di intendere la comunicazione nuovo. Si, nuovo e da comprendere e indagare. Mentre tutto è frenetico, il capo del Governo e il Papa twittano e questo sembra l’unico modo di vivere sui nostri eroi scende la saracinesca del riservo. Un vecchio detto, tra giornalisti dice “con Luna Rossa si sbaglia sempre”, perché comunque vada quello che scrivi, dici, fai, è sempre preso da un punto di vista che non ti aspettavi. Volevi essere un sostegno e ti trovi dalla parte dei cattivi. Ma come diceva Chiambretti: comunque vada sarà un successo. Insomma W Luna Rossa. Sembra che questa volta, finalmente per lui e anche per noi, il timoniere titolare sarà il bravo palermitano Francesco “Checco” Bruni, anche se gli sono affiancati altri nomi come Chris Draper e il neozelandese Adam Minoprio. Oltre al team che ha fatto esperienza a San Francisco ci saranno alcuni vincitori a bordo di Oracle, l’italiano Gilberto “Gillo” Nobili, l’italo caraibico Shannon Falcone, l’americano Simeon Tienpont. In totale i nuovi arrivi sono una quindicina, presi come si fa sempre da tutti i sindacati che hanno partecipato per entrare in possesso delle esperienze buone e cattive. Dallo sconfitto team neozelandese che sta vivendo un momentaccio il progettista principale Marcelino Botin, spagnolo di una ricca famiglia che lo ha sempre lasciato giocare con le barche. Ma nel design team ci sono altri nomi importanti, citiamo Mario Caponetto (vincitore due volte con Oracle) e Michael Richelsen, un tipo che ha messo le mani in quasi tutti i codici per la progettazione di vele. Questa volta si tratta di progettare un catamarano foiling (che si solleva sull’acqua) lungo poco meno di diciannove metri della nuova classe AC 62, un solo scafo per sfidante mentre il defender ne avrà due sebbene dello stesso progetto. Ma questo è comunque un vantaggio determinante in termini di sicurezza (possono tirare di più sapendo che hanno comunque una barca di riserva, possono fare esperimenti mentre gli altri sono impegnati in regata). Purtroppo i cattivoni di Oracle, Russell Coutts e Larry Ellison con il Challenger of Record Bob Otley e Iain Murray (primo sfidante) hanno scritto un Protocollo con regole piuttosto ingiuste e difficili da digerire, che in alcuni casi hanno dovuto subito ritrattare o meglio “chiarire” come quella della Giuria autonoma e non ISAF che pone seri problemi agli atleti. La Auld Mug, come sempre, andrà avanti tra mugugni, prese di posizione, aggiustamenti. E anche fortuna: se i grandi sconfitti neozelandesi non avessero “inventato” il foiling le regate di San Francisco sarebbero state noiose, per non parlare dello storico comeback di Oracle che ci ha fatto versare fiumi di inchiostro. Pare che anche Patrizio Bertelli abbia sparato qualche bordata delle sue ad alzo zero contro il Protocollo, ma alla fine la sua anima combattiva e toscana non si spaventa delle regole ingiuste: questa è la sua quinta sfida ed è già finanziata da Prada con una cifra di 55 milioni di euro, destinati a crescere perché il budget medio per ambizioni di vittoria si stabilizzerà verso gli 80 milioni, almeno facendo arrivare l’investimento complessivo in quasi vent’anni di partecipazione vicino ai 300 milioni di euro. Nella storia secolare ha fatto come lui solo sir Thomas Johnstone Lipton con i suoi Shamrock, un altro fortissimo self made man, eterno sconfitto in acqua ma assolutamente vincente nella vita. I nostri eroi prima di arrivare a sfidare il defender Oracle questa volta gestito da James Spithill (su Luna Rossa nel 2007) dovranno vedersela con i già citati australiani eredi degli storici vincitori dell’83, con gli svedesi di Artemis condotti dall’inglese Iain Percy. Mentre i neozelandesi di Grant Dalton faticano a mettere insieme il budget il più pericoloso sarà sir Ben Ainslie che ha lanciato un dream team che si aggiunge alle sue cinque medaglie olimpiche e vuole a tutti i costi riportare la Coppa dove è stata forgiata. Attenti, questa diventerà una impresa nazionale, come uno sbarco in Normandia del terzo millennio: sir Keith Mills, l’uomo che ha portato le Olimpiadi a Londra, è lì con loro sorridente nelle foto, pronto a dare il suo contributo con le connessioni nella city. Altre notizie? La Coppa è prevista nel 2017, sede più probabile San Diego perché San Francisco ha detto no, prima ci saranno regate di preparazione.
Il Protocollo è arrivato, con ampio ritardo sulla data promessa, ma soprattutto con ampie concessioni dal defender che sono state l’oggetto del grande ritardo nella sua presentazione. Il Challenger of Record ha ottenuto davvero poco per gli sfidanti in cambio delle pretese di Oracle. Iain Murray sulla stampa australiana ha parlato di cambiamento epocale in positivo. Ma a parole siamo bravi tutti…. i fatti pur non avendo letto nel dettaglio le tante pagine sono diversi e lo scenario appare peggiore di quello dell’era Alinghi, dove il catenaccio imposto dal defender cominciava a essere forte e talvolta sgradevole. Le barche saranno spettacolari, gli AC 62 possono essere uno strumento moderno per le regate, il foiling non è male. Ma il futuro degli eventi sportivi non è solo tecnologia, lo spettacolo passa attraverso rapporti con il pubblico più raffinati di qualche chilo di carbonio. Dove è il messaggio sportivo? Questo sarà sport “olimpico” o “kermesse”? Iain Murray e Russell Coutts potrebbero aver firmato l’ultimo atto della Coppa America, che come sappiamo non morirà (la Auld Mug ce la fa sempre) ma che finirà per vivere di se stessa, mondo autoreferenziale. Altro che concorrenza ai mondiali di calcio, alle Olimpiadi, al Tour de France, mancano i requisiti minimi di trasparenza. Certo, stanno diventando carrozzoni infernali anche quelli, gestiti da burosauri impomatati. Ma ci sono lezioni da imparare.
Di fronte a una “legge” qualsiasi ci si pone la domanda: “dove ci vuole portare chi l’ha scritta”? Regolamenti edilizi, regole di stazza, norme ambientali producono sempre modificazioni agli oggetti, al’ambiente. Dunque in altre parole, dove mira questo Protocollo? Che sia una intenzione esplicita (gli americani non ostante i loro studi di marketing sono talvolta di una ingenuità raggelante) o no, i challenger sono probabilmente destinati a restare cinque, che ben conosciamo, se non a scendere per abbandono. Le date di iscrizione sono molto vicine, il fee e il deposito sono abbondanti e solo chi è già al lavoro adesso ha già le risorse e la sicurezza interiore per iscriversi a un evento dove parte subito penalizzato.
Si sa che la Coppa America è fatta per caratteri forti, che chi vince scrive le regole. Però… la promessa sportiva era diversa, il depliant presentato da Ellison durante una combattuta conferenza stampa dell’estate 2007 era ben diverso, si parlava di valori sportivi, perfino “democratici”. Quasi quasi bisognerebbe avere la forza di dire: non ci sto. E infatti il New Zealand Herald già scrive a Dalton e compagni di defilarsi all’inglese senza rivincita. C’è una barca libera per partecipare alla Volvo Race, roba da uomini forti, i rumors dicono che Knut Frostad pur di avere sette partenti la vende con grande sconto. Una opzione per i kiwi, ma anche per Luna Rossa.
Ma come si fa a tirarsi indietro? Il Protocollo è certamente il risultato si una lunga azione di mediazione. Mancano le sedi di regata e senza quelle è più complesso progettare e finanziare. Chi vorrà mettere sul piatto 2 milioni di dollari per l’iscrizione per aspettare nuove regole che forse verranno? Forse solo un ricco emiro, nessuno sponsor che si muove secondo strategie e previsioni di contatto. Oltre all’unico sfidante sicuro australiano Bob Otley (Challenger of Record con l’Hamilton Island YC) chi ha già manifestato l’intenzione di esserci sono la nostra eroica Luna Rossa con Patrizio Bertelli alla quinta sfida e Max Sirena alla sesta campagna, gli svedesi di Artemis con Iain Percy in cabina regia, il baronetto Ben Ainlie con un sindacato che sventolerà l’union jack, un vincente nello sport con le sue cinque medaglie luccicanti e la sua azione risolutiva su Oracle nello storico come back e infine lo sconfitto Team New Zealand, incerto nella raccolta fondi, nella scelta dello skipper e ora nel supporto nazionale. Come prima impressione (e con tutto il desiderio di essere smentiti) non c’è posto per il ventilato secondo sindacato italiano, per quello di lingua araba, per i russi, per i cinesi, non c’è posto per altri defender che l’America avrebbe potuto produrre come ha sempre fatto. La edizione numero 35 non potrà superare in concorrenti quelle di Perth, San Diego, Auckland, Valencia. La cosa positiva è che i sindacati che hanno promesso la partecipazione sono di qualità, pochi ma buoni direbbe la nonna.
I vantaggi grandi per Oracle sono almeno tre. Intanto, non era mai successo non ostante i tentativi di farlo in passato, corre assieme ai challenger una regata non solo dimostrativa, come erano le world series con barche vecchie o con gli AC 45, che darà un punto importante nel match. Sulla carta l’idea non è male anche perché, per come stanno le cose, si trova a conquistare questo punto contro tutti gli sfidanti, però gli sfidanti lo “pagano” lasciandogli la possibilità di analizzare in regata le prestazioni dei loro AC 62, fatto che può diventare determinante per il risultato finale. Il defender può costruire due scafi (o meglio quattro che fanno due barche) ma dallo stesso progetto: la two boat campaign è fondamentale per costruire velocità, la stessa operazione dei kiwi nel 95, procedendo a modifiche graduali di cui verificare l’efficacia in acqua. Gli sfidanti lavoreranno con un solo scafo e mentre saranno impegnati in una località che non è quella dell’evento finale rischiando rotture il defender ne terrà uno ben custodito nella sua base. Infine la Giuria indipendente, non “imposta” dall’Isaf ma scelta tra avvocati sportivi. Dopo i due punti di penalità (che potevano essere una squalifica) per il taroccamento degli AC 45 è evidente che gli americani vogliono avere la possibilità di manovrare meglio queste decisioni. Ma quel che ci interessa di più è: cosa farà questa Coppa per diventare un grande evento? A San Francisco grande produzione televisiva per nessuna diffusione, bello spettacolo per un pubblico molto ridotto complici una serie di errori di prospettiva nella cessione dei diritti Tv, che in realtà non valgono quasi nulla, e la speranza che come succedeva decenni addietro la stampa si buttasse sull’osso con voracità. Purtroppo la crisi mondiale del mondo editoriale, il cambio dei gusti del pubblico, i costi ingenti di produzione e trasferta a fronte di risultati dubbi sono un freno che si può sbloccare solo investendo denaro vero per assicurarsi audience. Operazioni di marketing aggressive forse, ma che gli altri sport hanno praticato senza presunzione ammettendo che di Formula Uno ce n’è una sola. Dopo San Francisco insomma speriamo non sia una seconda edizione del “non comunicare” o perlomeno farlo con vecchie strategie contando sulla sicurezza femminile “sono ben truccata si accorgeranno di me”, pensando che sia il pubblico a muoversi senza essere perlomeno invogliato, senza una strategia di conquista, nessuno si accorgerà nel 2017 della Coppa America, perché le tecnologie a disposizione non sono l’unica chiave del successo.
“Ho già posseduto uno Swan, era un 601, ma volevo qualcosa di più definitivo. Io navigo molto a Miami dove il mare è oceano e serve una barca marina, solida e divertente. Da qui raggiungiamo i Caraibi navigando in mare aperto, e può essere impegnativo. Questo Swan 80 è quello che cercavo da tempo, facile da condurre e confortevole”. Sono parole di George Collins, neo armatore di Chessie, uno Swan 80 FD appena arrivato a Fisher Island, Miami.
Il nome potrebbe dire qualcosa a chi segue le regate: questo signore e appassionato navigatore è stato armatore e timoniere di Chessie Racing durante la ultima edizione della Whitbread Round The World Race (adesso Volvo con un percorso molto diverso), dunque è un amatore di notevole esperienza che è arrivato a varare questo ventiquattro metri a ragion veduta e come punto di arrivo per le sue esigenze. La misura degli 80 piedi resta, in un mercato che offre di tutto e di più, una delle più fortunate e sognate, del resto è quella storica di quei maxi yacht che hanno scritto tante pagine di vela leggendaria prima dell’avvento dei megayacht. Grazie a un generico downsizing dovuto in parte alla crisi, in parte a cambiamenti di stile degli armatori resta un caposaldo della vela. E’ anche la misura scelta da Leonardo Ferragamo dopo l’acquisizione del cantiere per farne un manifesto del nuovo corso con un nuovo modello. “Mi piace essere coerente – dice Ferragamo – e nelle mie barche cerco qualità che riflettono il mio stile e visione della vita. Partecipo molto da vicino alle fasi della costruzione e mi piace lavorare con un team di professionisti di fiducia. Decisi di acquistare il cantiere Nautor perché sentivo un’affinità con l’azienda e a sua dedizione a valori quali eleganza senza tempo, affidabilità e prestazioni”. Valori che sono tutti in questo Chessie.
Ottanta piedi è stata anche una misura chiave anche per German Frers, autore del progetto, che la interpreta fin dall’inizio della sua carriera, le sue carene hanno traversato ogni regolamento di regata e ogni modo di fare crociera, dunque in un certo senso il designer argentino non può sbagliare. Per trovare i primi maxi con la sua firma si può risalire risalire fino agli anni settanta, quando i grandi armatori del tempo cominciarono ad affidargli progetti importanti, tra questi il Moro di Venezia I di Raul Gardini (ancora brillante concorrente tra le barche classiche, ora armato dal nipote Massimiliano “Ciacci” Ferruzzi) oppure Windward Passage, Recluta, Scaramouche, Emeraude, Gitana.
Nautor’s Swan propone la carena da 80 piedi chiuse da tre diverse coperte, la FD, che sta per flush deck, ed è quella di Chessie. Poi ci sono la S, la RS. La differenza è tra le diverse soluzioni della tuga e della dinette che trova più luce nelle due proposte più ingombranti, il resto degli interni è molto simile. A sua volta lo Swan 80 FD è proposto in tre versioni per il layout degli interni. Nel caso di Chessie prevede una ampia cabina armatore a poppa che occupa tutta la larghezza della barca, una delle due doppie ospiti di centro barca in questo caso è dedicata al comandante, un’altra matrimoniale è a prua. L’armatore ha voluto che fosse espresso il massimo sforzo per ottenere una barca leggera non solo nella costruzione dello scafo. Per questo gli interni, paioli e mobili, sono realizzati con sandwich di alta tecnologia, con la parte estetica in spessore ridotto di teak verniciato. La sensazione che si riceve scendendo sottocoperta è quella di una barca molto curata, in un certo senso tradizionale. Al decor degli interni ha lavorato Heini Gustafsson di Nautor. “Gli interni di Chessie sono la combinazione di uno Swan classico e di un moderno – dice – usiamo il teak verniciato che è qualcosa che arriva dal passato e che è stato usato per molti anni combinato con qualcosa di moderno e più semplice, cerchiamo di essere minimali. Lo stesso vale per i colori, cerchiamo di usarne il meno possibile e così ci sono molti pannelli bianchi nelle cabine, in cucina, anche in dinette e gli ambienti restano più luminosi. Anche le pelli dei divani sono bianche, in questo modo gli armatori possono scegliere i loro colori preferiti per i loro cuscini e ottenere un carattere più personale con facilità”. Pur nella semplicità per l’occhio non mancano finiture di pregio, come la rubinetteria Dornbracht con finitura platino matt nei bagni o il Corian per i piani sia dei bagni che della cucina, materiale che può essere adattato a varie forme per realizzare per esempio i bordi antirollio. La sostanziale severità della dinette è interrotta dalle sedie di Vaar Yacht, che diventano un elemento d’arredo su cui posare l’attenzione. In coperta si può contare su una zona franca dedicata agli ospiti, libera da manovre che possono diventare pericolose, invece rinviate verso poppa. E’ un po’ il cuore della vita al’aperto, dove si trovano sedute imbottite e schienali a misura di salotto.
Se per molti anni Nautor ha costruito in vetroresina monolitica facendone un elemento di marketing legato alla sicurezza e alla durata (erano i tempi in cui era di proprietà di Kymmene, una cartiera con interessi forestali, sotto la direzione di Olle Emmes) ha cambiato rotta diventando anzi un innovatore tecnologico. Dunque inutile scrivere che per albero e boma è stato scelto il carbonio, il piano velico ha un genoa senza ricopertura e una grande randa che può essere square top nella versione regata. Purtroppo i limiti di pescaggio imposti dall’home port di Fisher Island hanno costretto alla scelta di una chiglia di immersione ridotta, cosa che non impedisce di correre spesso a velocità di due cifre, insomma spesso oltre i dieci nodi anche con vento medio. Del resto questo è proprio l’effetto maxi, che solo dopo una certa dimensione diventa visibile, cioè la capacità di costruire velocità e vento apparente con un risultato che con dimensioni inferiori non riesce così bene.
In navigazione Chessie, o meglio lo Swan 80 mantiene quello che promette sulla carta: Frers non può sbagliare su una misura che conosce così bene. Un timone docile che sa sempre condurre la barca dove la vuole portare il timoniere. Le prestazioni sono solide, o meglio rotonde con quella che se fosse uno strumento musicale sarebbe definita una gamma musicale molto ampia. Insomma la capacità di interpretare tutte le situazioni proposte dall’ Oceano aperto come vuole il suo armatore.
A trentasette anni è già baronetto infatti succede che a Sua Maestà non sfuggano gli eroi nazionali anche dello sport (da noi li bocciano a scuola) oppure della musica, come capitato ai Beatles. Rivolgendogli la parola bisogna usare quel suffisso “sir”, che fa tanto signore imbalsamato, chiuso in un cappotto fumo di Londra di lana pesante.
Sir Ben Ainslie è il velista che ha sperato ogni altro nel medagliere olimpico: cinque medaglie in cinque edizioni, con quattro ori consecutivi. Poi ha vinto la Coppa America da eroe, infatti è stato indicato come l’uomo che ha cambiato le prestazioni di Oracle, rendendo possibile la grande rimonta. Quasi vero. Ma Ben, soprattutto, è da guardare per come ha costruito la sua carriera per vincere sicuro e in questo modo: ha sempre scelto la strada più difficile per essere e diventare campione. Poteva essere tattico su New Zealand ma ha scelto di timonare la barca lepre “perché io voglio timonare”, prima aveva lasciato il sindacato di One World, perché lo distraeva dalla carriera olimpica e il timoniere era James Spithill. Come dargli torto… visti i risultati. Adesso è considerato l’uomo che più di ogni altro può battere lo squadrone americano e riportare la Coppa a casa nel Solent. Sogni che forse JP Morgan, suo sponsor da tempo, e la vecchia Inghilterra possono rendere possibili, perché gli eredi della regina Vittoria sembrano finalmente riuniti attorno al più grande velista, quello che ha superato i record di Grael, Scheidt, Elvstrom, Schumann. Sta raccogliendo un budget di 100 milioni di dollari, e può contare sul supporto sir Keith Mills (che lo aveva voluto su Team Origin) e Charles Dunstone. Singolista ha costruito la sua carriera sul Finn nella fortissima squadra inglese dove è cresciuto insieme a Iain Percy e a Andrew “Bart” Simpson, l’amico perso nel corso dell’incidente di Artemis dopo il quale ha dubitato di continuare ad andare in barca.
Ben quale è la differenza intima e personale tra vincere le Olimpiadi e la Coppa America?
“L’ Olimpiade è una questione personale, sei in singolo e sei tutta la squadra… sei tu a controllare il tuo destino, non dipendi da nessuno. Nella Coppa America c’è il piacere di far parte di un team che diventa una grande squadra. A San Francisco per la prima volta ho vinto facendo parte di un team che si è rivelato eccezionale. E’ stato molto potente, mi sono divertito molto. Dopo cinque medaglie considero la mia carriera olimpica conclusa, non tornerò dopo quello che ho già fatto, le soddisfazioni sono molte ma è anche molto faticoso, assorbe tutta la tua vita”.
Cosa bisogna fare per migliorare il seguito della vela olimpica e di conseguenza la popolarità della vela?
“Il problema delle classi olimpiche è che tra una Olimpiade e l’altra non se ne parla abbastanza. Il Cio ha fatto bene a dire che le classi non cambieranno per due tre edizioni, ma questo non basta, bisogna creare un circuito che riempia il vuoto tra le diverse edizioni”.
Come bisogna disegnare il futuro della Coppa?
“Il concept della manifestazione ha dimostrato di essere valido e di grande successo, lo spettacolo c’era. Ci possiamo dire fortunati di come è andata non tanto perche abbiamo vinto noi di Oracle, ma perchè e piaciuto al pubblico, un fatto che non era scontato. Tra le cose positive c’è senz’altro la copertura televisiva, le immagini prodotte sono state molto belle. Adesso penso si dovrebbero semplificare le barche e ridurre i budget, forse con elementi one design che possono renderle meno pericolose e più facili da disegnare per ridurre i costi. Ci vuole un circuito di avvicinamento che conti davvero qualcosa in termini di classifica”.
Sappiamo che la vittoria di Oracle è stata una miscela di miglioramenti e scelte, ma se dovesse indicare uno solo, quale sarebbe?
“La nostra mossa migliore è stata di mettere a punto l’ala usando al meglio il giorno di riposo. Questo ci ha fatto cambiare radicalmente le prestazioni, ed è stato decisivo. Abbiamo aumentato il rake e dato più profondità alla vela, queste modifiche ci hanno dato grande potenza e di conseguenza ci ha reso più sicuri delle prestazioni della barca, questo ci ha fatto navigare meglio”.
Però in molti dicono che la mossa decisiva è stato l’arrivo a bordo di un certo Ben Ainslie.
“In realtà sono un po’ imbarazzato quando dicono così. Spesso, quando le cose vanno decisamente meglio si pensa che sia il risultato dell’arrivo a bordo di un campione. Ma il nostro è stato il risultato di un team, la Coppa è assolutamente uno sport di squadra, fatto di tante componenti. Ho avuto un ruolo nel team e nella vittoria, non lo nego, ho portato nuovo ottimismo, una visione mia della regata. Devo anche riconoscere la piena collaborazione di John Kostecki, che mi ha messo a disposizione tutti i dati che non conoscevo a fondo e quella che ho avuto da Tom Slingsby a bordo”.
Un errore di Emirates Team New Zealand?
“I kiwi hanno fatto una grande campagna, sviluppando bene gli ac 72, inventando il foiling e facendo per primi tante altre cose. Non riesco a definire un errore decisivo… al contrario Oracle ne ha fatti molti. Noi siamo sempre stati capaci con un impegno continuo di sviluppare la barca ogni giorno, senza fermarci fino alla fine. La nostra era una barca più difficile da portare e quando siamo riusciti imparare come si faceva ha dimostrato la sua superiorità. Alla fine questa è stata la vera differenza”.
I suoi programmi a breve?
“Tutta la mia vita velica è passata in monoscafo, solo da un paio d’anni mi dedico a multiscafi ed è una nuova sfida. E’ tutto molto più veloce, corto. E’ vela d’impatto. Sto lavroando da tempo per riportare un team inglese in Coppa. Con Jp Morgan partecipiamo al circuito degli Extreme 40 perché era la soluzione migliore per iniziare gli allenamenti con l’equipaggio che vorrei portare in Coppa America. Quest’anno non ci saranno eventi con gli AC 45, non è esattamente la stessa cosa ma molto simile. Vogliamo anche portare avanti la campagna di ricerca sponsor. Gli Extreme sono un buon modo per essere in regata con quel brand, quel nome, per costruire il sailing team”.
Insomma dopo tanti anni di assenza dalla Coppa un team inglese sembra finalmente possibile.
“Ci lavoriamo duramente da anni e finalmente sembra un evento vicino. Adesso aspettiamo che ci siano le nuove regole per arrivare a definire il team nei dettagli. Vorrei vedere JP Morgan come title sponsor, abbiamo una bella partnership. Il Challenger of Record Bob Oatley sta negoziando con Oracle, ma Iain Murray che lo rappresenta è molto aperto nel raccontare le trattative che sono in corso e ci tiene informati, è molto positivo, ma c’è ancora un percorso da completare prima di arrivare al protocollo. Per vedere una bella Coppa direi che ci vorrebbero almeno sei sfidanti, forse possiamo arrivare a otto”
Sogni nel cassetto?
“Di sicuro vorrei riportare la Coppa al suo posto nel Regno Unito, è nata qui e vorrei vedere i cat che fanno il giro dell’isola di Wight con i foil: quanto possono metterci? Un’ora? Poi forse il giro del mondo. Io amo la vela e mi piace stare sull’acqua. Vorrei anche andare a vela per il solo piacere di navigare, come un turista qualsiasi, questa è una cosa che ho fatto davvero poco”.
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