Questo è l’anno di Ted Turner, americano vero: bevitore e sanguigno però anche genuale. Lo chiameranno presto “captain outrageous” durante la sua campagna a bordo di Courageous, per come tratta chi non gli piace. Ted sta diventando un personaggio importante in tutti gli Stati Uniti, ma è contagiato, come molti, dal virus della Coppa. Le altre barche forti americane sono Enterprise dove Lowell North sperimenta quanto sia difficile il gioco della Coppa e Indipendence, disegnata, timonata e invelata da Ted Hood. Si fanno esperimenti sulle vele. Le aggressioni in acqua e a terra non si risparmiano. North inventa il sandbagging, cioè rallenta di proposito la sua barca per non far vedere agli avversari e all’equipaggio le possibilità che ha. Poi però viene allontanato dal New York Yacht Club che vede nel suo modo di gestire la squadra un pericolo. Dennis Conner rinuncia a sostituirlo e alla fine lo fa lo starista Malin Burnhan che per ritrovare la sensibilità cui è abituato applica anche uno stik alla ruota, ovviamente certe manovre repentine gli riescono difficili. Turner, che dovrebbe essere il più debole, punta a fare partenze vincenti e a usare bene, navigando magistralmente, una barca collaudata e senza sorprese che ha già difeso con successo la Coppa. Alla fine non avrà torto. Il cammino dello sfidante Australia di Alan Bond, iscritta per il Sun City Yacht Club di Perth, disegnata da Ben Lexcen (già Bob Miller, il progettista ha cambiato nome) è debolmente ostacolato da Sverige di Pelle Petterson e da France III del barone Bich. Inutile dire che Bond perde ancora per quattro a zero. Ted Turner è forse l’ultimo timoniere che non si dedica alla vela come unica professione a vincere.
La Vendee Globe al momento è l’unico giro del mondo a vela che vale la pena di seguire: solitario, eroico, senza scalo, senza aiuto, immagini forti di planate. E’ la grande vela epica della Great Circle Route, quella degli esploratori. Nata per essere una sfida assoluta in stile francese ha sofferto all’inizio per le regole troppo libere e i pochi compromessi voluti dopo i disastri delle prime edizioni, riguardano soprattutto e giustamente la sicurezza. Gli incidenti, ribaltamenti e avventure varie, hanno spinto a prendere pochi provvedimenti fondamentali, che hanno salvato la vita ad alcuni, lavorando su particolari delle barche e vincoli sulla rotta che non può scendere troppo a sud. Questo non ha impedito di scendere dai quasi 120 giorni della prima edizione a 80 con un progresso di velocità incredibile. Del resto si tratta sempre di raggiungere un compromesso: troppe regole ammazzano l’evento, poche regole ammazzano i partecipanti. Il pericolo o la morte sono fin dal tempo dell’antica Roma un ingrediente dello spettacolo, tuttavia nel quarto millennio della civiltà, con un parlamento europeo che non pensa ad altro che alzare il livello di sicurezza di ogni manifestazione umana, anche lo show business (perché di questo si parla in presenza di sponsor) deve essere sicuro. Alla Vendee insomma, come ad altre regate, dobbiamo essere in grado di togliere il rischio di vita e lasciare lo spettacolo. Sono partiti in venti e dopo pochi giorni di regata sette, tra cui alcuni dei meglio preparati erano già all’ormeggio. Un paio sono finiti addosso a barche da pesca, altri hanno rotto qualcosa. Bisogna partire… ma anche tornare a casa. Suona incredibile che un velista esperto come Vincent Rioux si sia giocato la partecipazione per non avere un tirante del bompresso di ricambio, e che in una posizione esposta lo abbia scelto di carbonio: in acciaio sarebbe pesato solo poco di più con ben altre garanzie di durata. Le barche sono ancora una volta troppo fragili cosi come lo sono state quelle della Volvo Race, regata dove nessuno ha finito senza almeno un problema grave alla barca. Non si può più assumere per vera una battuta, cioè che se una barca non si rompe è troppo pesante, bisogna saper progettare e costruire barche che arrivano in fondo… e saperle portare a casa. Un passo indietro? No, è un passo avanti, sarebbe il progresso vero, utile.
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