La canzone del mare
La canzone del mare è un famoso stabilimento balneare che nasce con vista su uno dei più bei posti del mondo, a Capri, Marina Piccola. Il suo nome, così caldo e partenopeo, non è casuale: il mare ha il suo linguaggio, i suoi rumori, i suoi sapori. E quel posto meraviglioso è proprio li, sul mare, in angolo di pianeta di insuperabile bellezza. Chi va per mare lo fa perché ha un suo motore interiore, la passione. Per anni, anni d’oro e ruggenti, però la musica che abbiamo ascoltato è stata un poco diversa: la pulsione più forte per fare la vita di armatore è finita nascosta dietro motivazioni di vendita sempre più ardite e legate all’apparire. Diciamoci la verità: la crescita inarrestabile della nautica da diporto “tra le due guerre” e intendiamo tra la crisi 92/93 e questa che stiamo vivendo ha illuso tutti che si potesse spremere il limone senza che fosse necessario coltivare la parte buona del mercato, quella che vive il mare per il mare. In questo periodo sono nate iniziative spregiudicate, verso cui nessuno ha alzato seriemente la mano. E’ nata una legge sbagliata che conteneva i germi del disastro, le leggi pilotano sempre il mercato. Nel Codice la “suggerita” separazione delle carriere (barche per noleggio e barche di proprietà) ritenuta utile perché apriva per le unità più grandi una porta alla riduzione delle accise sul carburante, ha dato modo di costruire una elusione applicata in forma generalizzata da molti. Poi il caso Briatore ha messo in luce la distorsione, e il nostro mondo che già aveva la fama di evasore ha avuto la laurea honoris causa. A qualche anno dai fatti non è più possibile contrastare in nessun modo quell’immagine ferocemente negativa e difendere la nautica è del tutto impopolare e nessuno vuole farlo. La pressione infinita sulla parola lusso, su tacchi femminili, su campagne “emozionali” e non “passionali” ha fatto il resto. Il risultato? Il mondo del diporto, agganciato a valori effimeri e non alla solidità del piacere delle vacanze, è sempre più debole. Le riviste di settore sempre meno rispettate dai cantieri non riescono più a sostenere il popolo dei diportisti. L’idea di agganciare clienti con i quotidiani accarezza chi pensa che vendere barche sia uguale a vendere detersivi o automobili. Nella prossima edizione il Salone di Genova passa da 1500 e più espositori degli anni d’oro a 900. Molti operatori del mondo della vela hanno tentato di lasciarlo in cerca dell’illusione di spendere meno e avere più pubblico. A Genova gli assenti hanno sempre torto, se fanno prodotti della fascia media bisogna esserci: chi lo organizza lo sa da sempre e per questo assume un atteggiamento che a volte è sembrato troppo rigido. Chi ha provato a uscire ha ottenuto almeno il risultato di sollevare un problema concreto. La nautica da diporto non è più quella di qualche anno fa, non ci sono le stesse disponibilità economiche. Risparmiare? Non è facile, dimezzare le spese per lo spazio significa ridurre il budget per il salone di una piccola percentuale: si spende tanto in tutto il resto, personale trasporti. Una cosa sbagliano i cantieri: pensare che Genova sia una fiera locale, se lo sono detto e ridetto, forse alla ricerca di un alibi per non esserci. Che fare per migliorare la situazione del diporto? Tornare alla canzone del mare, alle parole del mare, al linguaggio del mare. Non solo nella comunicazione, ma anche nei prodotti. Barche che stanno bene in mare, che sono prodotti definitivi ben fatti, che assecondano il desiderio di una clientela più matura, è già una prima sfida da vicere.