C’è forse un brutto effetto collaterale nel disastro della Costa Concordia, forse non ancora visibile: la rovinosa caduta della figura del comandante, dello skipper, che restava uno degli ultimi eroi buoni e positivi nella memoria collettiva. Il comandante è sempre stato un tipo, magari un po burbero e distante, duro anche, che però può somministrare matrimoni e salvare le vite. Uno cui si affida la propria vita con fiducia prima di partire per un lungo viaggio. Invece Francesco Schettino si è dimostrato (per quel che abbiamo visto e sentito) solo uno dei tanti affetti dai sintomi peggiori della nuova etica contemporanea, dove la coerenza, intesa anche come dedizione al proprio ruolo, è inutile, purtroppo perfino derisa. Già il suo ruolo è ambiguo: direttore di un grande albergo semovente o marinaio? Raccontano che un mese prima del fatto del Giglio sia uscito dal porto di Marsiglia con una bufera, senza danni alla nave ma nell’incertezza degli altri ufficiali. Beh, si racconta ancora di Straulino che entra nella Manica con l’Amerigo Vespucci a vele spiegate: quella una prodezza e questa no? Diversa la funzione delle due navi. E sono cambiati i tempi, certo. E’ cambiato il modo di vedere le cose a amministrare la sicurezza, la nostra percezione del mare è cambiata. Joseph Conrad in Tifone racconta la mediocrità senza speranza di Mac Whirr, un comandante ottuso, che porta con ostinazione la sua nave al disastro traversando la tempesta. Ma quell’uomo nato sui regolamenti, che ha fatto una carriera forse non meritata riesce comunque a essere ancora un comandante perché sente la sua vita legata alla sua nave, che ritiene purtroppo invincibile. Per questo anche Conrad non riesce a farne un vero colpevole e lo descrive con rassegnazione, non poteva essere diverso per i suoi limiti. Qui la storia è diversa, non ha avuto neanche la scaltra furbizia di esser l’ultimo ad abbandonare la nave, come da copione e regolamento. I giornali non ci hanno aiutato: hanno avuto più voce i critici musicali con le loro opinioni che i veri uomini di mare. Nel mondo – spettacolo per poter parlare bisogna esser famosi più che preparati. In tante interviste abbiamo sentito pochi ammiragli e comandanti, tanti scontenti che non hanno idea di cosa sia un soccorso in mare, che non hanno capito che i morti potevano facilmente essere 2000. Schettino ha tutte le colpe? Forse no, bisogna scavare negli ordini ricevuti dalla compagnia e dalle sue speranze di salvare il salvabile. Ha sottovalutato tutto, certo. La mitica telefonata con il comandante De Falco rivela, se ben ascoltata qualche sintomo in più di un processo decisionale condizionato: nessun comandante (e questo lo faremmo anche noi con le barche da diporto) vorrebbe lasciare nelle piene mani della Capitaneria la sua nave/barca. Quante volte questo è stata solo una amplificazione del disastro? Dopo il may day la nave è persa, è relitto. E al di la di ogni considerazione economica e gerarchia tra la necessità di salvare le persone o la nave sappiamo bene che “abbandonare” significa quasi sempre perdere. Quando interviene la Capitaneria il comandante/armatore non può più dare ordini veri (“adesso comando io” infatti è la dichiarazione che arriva da Livorno “lei conti le persone”). Giusto? Sbagliato? Chi scrive aveva una barca che poteva essere salvata con un intervento più rapido e radicale, ma perfino l’avvocato gli ha consigliato di non presentarsi sul posto, di non prendere iniziative che potevano peggiorare la situazione. Dunque, forse, qualcosa non funziona, al di la della orrenda situazione che si è creata al Giglio, anche nel sistema complessivo della gestione di queste emergenze.
La figura del comandante, nel nostro piccolo, prima di Schettino, era già in pericolo: troppi skipper della domenica che non sanno più che il comando è una missione, che per comandare devi sentire addosso oltre alla tua vita, quella degli altri e della barca. Troppa gente che diventa istruttore dopo qualche settimana di mare e poi si sente in diritto di tenere prigionieri delle sue idee quelli che navigano con lui. Skipper: ma esiste ancora questo ruolo?
Chi si appresta a partire per l’Atlantico gode uno spettacolo di natura, mare. Di attesa. In banchina, nelle isole di fonte l’Africa, ci sono i “prigionieri del sogno”: sono i marinai che hanno venduto la casa per comprare la barca, gente che aspetta di partire, transitare il mare di Colombo per un sole nuovo. O forse un sole che ha già visto molte volte di cui non può fare a meno. Alcuni, e sono i veri prigionieri, hanno la barca a terra e procedono a lavori infiniti di preparazione, modifica, manutenzione su barche di nessun valore economico, che sono il loro monumento al mare. Punta estrema dell’iceberg della passione per il mare, unico e forte denominatore comune per chi desidera, possiede, vuole una barca. Quella cosa che purtroppo i nostri governanti hanno sempre faticato a comprendere e riconoscere. La nuova Tassa di Stazionamento dovrebbe avere un altro nome: Tassa sulla Passione. E’ singolare come le tasse arrivino puntuali a colpire il cuore e la produttività. Le enormi accise sui carburanti dovrebbero chiamarsi “Tassa sulla mobilità”. In maniera meno estrema di quei navigatori oceanici anche i diportisti italiani, tanti di loro, sono legati al mare da una passione forte, che finora è costata molti sacrifici. Il sistema però deve fare un poco di autocritica: finora legate alla nautica da diporto ci sono state bandiere positive, come la capacità industriale, quella legata al design. Le barche italiane sono le migliori del mondo. Ma anche bandiere che si sono trasformate in negative, come aver quella del lusso esclusivo, del lifestyle inteso come esibizione. Una debolezza cui sono caduti in molti, che contagia ormai la nostra società, molte troppe aspirazioni al consumo sono state costruite sulla emulazione di trend setter. I-phone e I-Pad sono meravigliose protesi del nostro cervello, ma anche “indispensabili” status. E’ difficile che una campagna pubblicitaria sia permeata di valori concreti legati alla vacanza, al mare. Alla fine tutti credono che le poche centinaia di barche che solcano i mari più esclusivi, Porto Cervo, Argentario, Portofino, siano davvero la sostanza della nautica. Delle centomila barche (circa) immatricolate in Italia più della metà ha un valore commerciale di sicuro inferiore ai centomila euro, ma prima della Tassa, perché ora non valgono nulla. Tante sono il tesoretto di marinai, impiegati, pensionati che vivono al mare. Siamo di nuovo di fronte a una scelta di risparmio forzato. Dopo la cura Goria per la crisi dell’83 (insostenibile redditometro) ci sono voluti una quindicina di anni per ritrovare una nautica da diporto vitale. Quanti ce ne vorranno dopo questa nuova presa di posizione? E chi l’ha inventata non poteva guardare al passato? E ricordare che era stata tolta perchè l’incasso non valeva il suo costo?
E’ nato come protezione del pilota delle auto da corsa, ma si sta rapidamente diffondendo sulle barche a vela. I cantieri lo usano per la sua suggestione di sicurezza, ma serve a poco. Già, finora al roll bar avevano pensato solo i rudi navigatori oceanici: a loro serviva per montare antenne, pannelli solari, generatori eolici, e appenderci sotto il tender. Una piramide che aveva anche il simpatico effetto di far calare di qualche centimetro il bordo libero a poppa, solo talvolta compensato da altrettante dotazioni infilate nei gavoni di prua, tanto per dimenticare la buona regola dei pesi al centro per passare meglio l’onda. Ma in barca ciò che fa sicurezza non è sopra… come sulle auto dove l’abitacolo deve proteggere gli ospiti anche in caso di ribaltamento. Le spider per regola devono avere un roll bar, ma i designer di oggi fanno di tutto per non farlo vedere: di solito collaborano alla protezione il sostegno del parabrezza e i sedili. Ma le barche… semplicemente non devono ribaltarsi e quello che le rende sicure è sott’acqua e si chiama zavorra. Chi compra una barca a vela dovrebbe sapere cosa sono la percentuale di zavorra, il momento raddrizzante, la stabilità. Negli anni la zavorra è calata molto, questo porta un risparmio sia in materiali sia in strutture del fondo dello scafo. Il roll bar è stato usato tanto come decorazione dei fly bridge dai designer dei motoscafi, proprio in anni in cui nelle auto spopolava e poi è rimasto li, una piattaforma verso il cielo. Adesso la simpatica protesi viene proposta sulle barche a vela di grande serie. Il motivo principale, sebbene condito da un alibi funzionale per sostenere il trasto della randa, è psicologico. Il roll bar addolcisce il senso di scomodo della barca a vela lavorando sulla suggestione di una sicurezza che andrebbe cercata altrove. E poi… le fa somigliare ai motoscafi e questo serve per catturare quel poco di clientela che non può più riempire serbatoi che alimentano motori roboanti. Insomma, il roll bar è una bugia. Forse innocente e necessaria, ma pur sempre una cosa di cui non si sentiva il bisogno. Quando avremo le barche a vela con il fly bridge? O con due ponti. Qualche megayahct così esiste già, purtroppo la mente corre a quei maxi anni ottanta “flush deck” con la loro severa eleganza, oppure alle tughe leggere e filanti di qualche buona barca contemporanea.
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