La giornata comincia con l’incertezza del vento, quando il Comitato chiama in mare la barche è ormai ora di pranzo e il programma è in ritardo di qualche ora. Del resto la notte è stata lunga, con la bella festa, il “beach party” che Louis Vuitton ha voluto a Cala Trinita e ha tenuto impegnati gli equipaggi fino a tardi: prima stregati dallo spettacolo di un magico tramonto sulle Bocche di Bonifacio e poi delle danze.

La prima coppia di equipaggi era quella formata da Luna Rossa e TeamOrigin. Per i primi quasi una lotta per la sopravvivenza, per i secondi una vittoria era importante per restare nelle parti alte della classifica dove regna Artemis. TeamOrigin, ben manovrata dal timoniere Ben Ainslie e dal tattico Iain Percy conquista subito la sinistra del campo che si rivela il lato favorito. Per Ed Baird e il suo equipaggio di veterani la partita è subito chiusa: gli inglesi conducono per tutta la regata, senza fatica, e vincono con un vantaggio di 37 secondi.

I due turni successivi toccano ad Azzurra, con due avversari importanti. Per la barca di Francesco Bruni e Tommaso Chieffi gli incontri sono contro Synergy, barca di bandiera russa ed equipaggio internazionale e Artemis.  Come nella regata precedente la vittoria si costruisce nelle primissime scelte e Azzurra decide bene: parte a sinistra come avevano fatto gli inglesi, poi decide di “scambiare” lato quando ha il vantaggio sufficiente a passare sulla destra del campo e gira la boa di bolina in vantaggio. Il vantaggio è poco, ma quel che basta a contenere il ritorno di Jablonski e la sua Synergy. Nella seconda bolina si lavora tanto per un “tacking duel” (un duello di virate) in cui si contano dodici cambi di bordo. Azzurra vince con 15 secondi di vantaggio.

Poco dopo la partenza della terza regata del giorno, Azzurra contro Artemis, la capo classifica. Si prova a partire una prima volta, poi il comitato si rende conto che il genoa di Artemis è sbagliato e richiama le barche. Nella partenza vera il timoniere di Artemis, l’americano Terry Hutchinson, controlla bene Bruni e gli somministra una penalità. Artemis e Azzurra restano sempre vicine, Azzurra passa in poppa ma il suo vantaggio non basta. Anzi lungo la bolina Artemis naviga meglio e passa di nuovo in testa. Insomma per gli italiani non ci sono possibilità ne di restituire la penalità ne di conquistare un vantaggio adeguato a eseguirla in tranquillità. Devono cedere ad Artemis che conquista il quinto punto.

Nel quarto match Artemis e Synergy sono un incontro al vertice: gli svedesi sembrano controllare bene gli avversari, ma al cancello di poppa compiono un errore di manovra e rompono il tangone, il gennaker si infila sotto la barca e si fermano mentre gli avversari sfilano di poppa e vanno a conquistare una vittoria importante.

Il programma si conclude con l’incontro tra Emirates Team New Zealand e All4One. Si corre questa quinta prova con l’anemometro che sfiora i venti nodi e crea qualche difficoltà agli equipaggi. La regata è presto detta: in partenza il timoniere della barca franco tedesca Sebastien Col controlla bene Dean Barker che entrava con la bandiera blu, le due barche si scambiano qualche favore sulla linea di partenza, ma All4One esce un po’ meglio. Lungo la bolina sulla barca neozelandese si apre un piccolo taglio sul genoa, fatto che limita le possibilità di virare: farlo potrebbe significare ingrandire lo strappo. I kiwi sono costretti a inseguire e nella poppa successiva si avvicinano un poco all’avversario ma non basta per cambiare le sorti della regata. All4One vince con un vantaggio di 21 secondi.

Classifica provvisoria

1)  Artemis, 5-2, 5 punti
1)  Synergy Russian Sailing Team, 5-4, 5 punti
2)  Emirates Team New Zealand, 4-2, 4 points

2)  All4One, 4-3, 4 punti

2)  TEAMORIGIN, 4-3, 4 punti
6)  Mascalzone Latino Audi Team, 4-1, 3 punti *
 

7)  Azzurra, 3-4, 3 punti

8)  Luna Rossa, 2-6, 2 punti
8)  BMW Oracle Racing Team, 2-5, 2 punti
10)  ALEPH Sailing Team, 2-4, -2 punti *

 *  Punti dedotti per intervento della Giuria/Comitato

I porti turistici sono la vera Cenerentola del sistema infrastrutturale “turistico nautico” italiano. Perché? Soprattutto perché la cultura che sta alla base della concezione di porto turistico è sbagliata, aggrappata a una concezione di marina che funziona solo in alcuni casi, peraltro rari, che trasforma le barche in pretesti per costruire a terra e i porti in garage impenetrabili del turismo, aperti solo alle barche residenti. La trasformazione culturale necessaria è capire che il porto turistico, almeno in una forma buona per le vacanze, è una infrastruttura che porta benessere alle comunità locali. La regione Sardegna, tanto per fare un esempio, qualche anno fa ha messo in opera uno dei piani più inutili e disastrosi dedicati alla portualità turistica. Con un costo per posto barca incredibile (molti soldi pubblici) è riuscita a “de” localizzare i porti, con il risultato che ci sono alcune realtà in cui per comprare una bottiglia d’acqua bisogna prendere il taxi. Va da se che tolte alcune realtà famose il resto funziona poco, e funziona a costo di rimaneggiamenti continui e costosi. Se da una parte le comunità locali continuano a non capire come si può creare occupazione con i porti turistici dall’altra il fronte dei marina privati fa corpo unico e si difende su un terreno facile. Nelle condizioni attuali dello Stato è impensabile assegnare ai porti turistici un ruolo infrastrutturale e dedicare fondi pubblici alle opere. Spesso non servirebbe un euro pubblico, basterebbe mettere a disposizione quello che già esiste, moli inservibili costruiti per qualche elezione dimenticata. In Italia esiste una associazione di marina, si chiama Assomarinas e il suo presidente è Roberto Perocchio. Racconta una fase positiva nella costruzione dei marina, un censimento fatto dall’associazione che ha dei motivi di interesse. “Il nostro censimento più recente ci restituisce una stima di 40600 posti barca che verranno completati, realizzati nei prossimi anni. E’ una stima realistica, cui crediamo – dice – “si tratta di interventi nuovi, di recuperi urbanistici. La nostra impressione è che la delega alle autorità locali sta funzionando bene per concretizzare nuove strutture. Ad esempio l’iniziativa di Fiumicino ne è una concreta testimonianza”. Non tutti sono della sua opinione, anche se questo numero è positivo arriva dopo un immobilismo durato troppo tempo, rallentato proprio dal passaggio dei poteri demaniali alle autorità periferiche che ha provocato per almeno cinque anni una sorta di paralisi: le Regioni non erano pronte (non tutte per fortuna) con funzionari che avessero una cultura specifica sull’argomento. Chi c’era ha voluto rivedere in molti casi concessioni già concesse. E in termini di programmazione complessiva talvolta il peso si sente ancora: invece di un sistema organico, connesso e utile a un flusso turistico nautico che ha bisogno di diverse tipologie e servizi portuali, perché un conto è parcheggiare la barca durante l’inverno altro è navigare, spesso i marina nascono come funghi spontaneo spinti da richieste locali. Il tutto dovrebbe essere inquadrato in un intervento strategico, nazionale se non Mediterraneo. Una recente proposta di legge per la revisione delle Autorità portuali in qualche modo “liberalizza” l’uso dei pontili galleggianti, togliendo la necessità della licenza edilizia che per molti anni è stata usata come una delle scuse per bloccare i lavori può davvero servire a migliorare la situazione .In realtà la questione era discussa anche prima, nel senso che per alcune interpretazioni non era necessario arrivare alla licenza edilizia per queste strutture che sono mobili, ma il fatto che non ci fosse una norma univoca era fonte di incertezza. Racconta ancora Perocchio: “E’ una misura sensata, perché il Comune è già coinvolto nella concessione demaniale e quindi sa cosa succede. Era un inutile doppione”. Come abbiamo scritto all’inizio in alcuni casi il principale ostacolo allo sviluppo della portualità sembra essere la concezione classica di “marina turistico”: una enclave dove non si può entrare, non si può uscire. Certo è protezione ma spesso è anche una negazione della funzione stessa di porto, interfaccia tra il territorio, e i suoi abitanti, e il mare. Spesso il cancello è una invalicabile barriera. Ci sono luoghi dove per regolamento urbano i porti turistici collocati nei centri storici non possono essere chiusi al pubblico. Le barche da diporto diventano arredo, oggetti da guardare per chi frequenta il “sea side”. I viaggiatori a loro volta trovano un ambiente vitale, dove la vita è spontanea e non è generata con forza dalla gestione, per rendere il posto abitabile. Certo, questo può implicare dei problemi di sicurezza, ma anche per questo alcuni marina sono diventati dei grandi garage a cielo aperto. Dove si crea una vita artificiale o dove non si riesce per nulla a creare una vita.

Nel 1857 George Schuyler, uno dei soci fondatori e dei proprietari della famosa goletta America, dona la Coppa “delle Cento Ghineee” al New York Yacht Club, la accompagna un documento che si chiama Deed of Gift, atto di donazione, che stabilisce le regole per le sfide “amichevoli” tra Yacht Club e nazioni, che da li in poi saranno alla base delle regate. Purtroppo bisogna aspettare il ’70 perché finalmente si faccia avanti una barca inglese che traversa l’oceano nel tentativo di riportare la coppa nel Solent. Chi tenta la grande impresa è James Ashbury con Cambria, costruita da Ratsey, che ha già il primato di esser stata la prima barca inglese a traversare lo stretto di Suez, la grande impresa inglese che accorcia il passaggio tra Mediterraneo e Mar Rosso. Ad accogliere Cambria a New York ci sono quattordici defender tra cui la vecchia America. Magic vince la regata, il suo nome resterà nella storia e verrà usato ancora per un defender. E’ una goletta con deriva mobile di ventisette metri, adatta alle acque protette della baia, disegnata da Richard Loper e ha già qualche anno sotto la chiglia. Era nata con armo sloop e con il nome di Madgie nel 1857 ed è stato ampiamente rimaneggiata prima dell’acquisto da parte di Franklin Ogswood. America, che corre senza modifiche, è quarta, la sfidante Cambria solo decima: in quasi vent’anni gli inglesi hanno fatto pochi progressi. Si corre in tempo compensato secondo una regola adottata un anno prima nella baia di New York: in realtà Magic in tempo reale è ottavo. Il percorso si snoda nella baia per 38 miglia e traversa il traffico commerciale, per le barche in regata non è facile evitare le navi. La vita di Magic sarà molto lunga, infatti passa di mano tra diciannove armatori tra i quali anche la “Navy” americana, che la impiega come nave rifornimento nel corso della guerra del 1898 contro la Spagna. Finisce distrutta da un uragano e poi demolita con gli esplosivi davanti a Key West nel 1926.

Si chiama  America la goletta che traversa l’Atlantico per andare a sfidare le imbarcazioni inglesi: è armata da un gruppo di ricchi animati da John Cox Stevens. Sono i fondatori del New York Yacht Club: George Schuyler, Hamilton Wilkes, Beekam Finlay e James Hamilton. Il progetto è di George Steers e riprende canoni molto usati in America per la pesca e per le imbarcazioni dei piloti del porto di New York, profondamente diversi da quelli inglesi. Non si tratta di barche strette e pesanti, ma di scafi larghi e più leggeri. Una esigenza nata nei porti del Maine e New England, ricchi di bassifondi. Il 1851 è  l’anno della grande Esposizione Universale, voluta dalla regina Vittoria, che regna sull’Impero Britannico e la sfida fa parte degli eventi collaterali. Il 22 agosto si regata attorno all’Isola di Wight e gli americani (lo skipper è Dick Brown) devono incontrare quattordici avversari inglesi. Conquistano quella che allora è solo “la Coppa delle Cento Ghinee” forgiata dal gioelliere della regina Garrard e messa in palio dal Royal Yacht Squadron, lo storico club di Cowes. La prima barca inglese è Aurora di Michael Ratsey, proprietario di un importante cantiere locale, che arriva otto minuti dopo America. La leggenda vuole che un valletto della regina abbia pronunciato alla regina, per descrivere la situazione, la frase “Maestà non vi è secondo”. Parole che comunque raccontano bene il vuoto che seguiva la barca americana e l’umiliazione degli inglesi. Adesso si discute se la frase sia vera, se quel valletto sia mai esistito. Certamente è rimasta nella storia ed è sempre citata per descrivere il senso di sfida della Coppa. “There is no second” è il cuore del match racing, è l’essenza del killing instict che viene richiesto ai timonieri.

Il vento oggi ha fatto le bizze, il Comitato ha dovuto aspettare fino al primo pomeriggio per allestire il campo di regata e lanciare tra le boe i primi due equipaggi: l’americana BMW Oracle e la russa Synergy. Ebbene, ancora una volta l’equipaggio vincitore della Coppa America numero 33 si è fatto battere. Karol Jablonski, il timoniere polacco ha sempre tenuto aperto il gioco riuscendo a superare l’avversario al termine della seconda bolina vincendo con un vantaggio di 21 secondi.

Molto accesa la partenza della regata tra Emirates Team New Zealand e BMW Oracle Racing, che deve da qui in poi iniziare a vincere. Dean Barker, il timoniere neozelandese, riusciva a infliggere una penalità a James Spithill nelle fasi del prepartenza. Gli americani conducevano la regata con i kiwi che gli lasciavano un piccolo vantaggio sicuri del fatto che la penalità sarebbe stata sufficiente. Ma verso l’arrivo gli Umpire, gli arbitri in acqua, penalizzavano la barca neozelandese per non aver teso a suffcienza lo strallo di prua. I pochi metri di vantaggio conservati dagli americani erano sufficienti a vincere.

Dopo il settimo giorno ci sono tre barche a quattro punti: Artemis, Emirates Team New Zealand e Synergy.

Questa sera i velisti si concederanno una distrazione, con il “beach party”: la località è “top secret” ma di certo la grande festa organizzata da Louis Vuitton nell’ambito del Louis Vuitton Trophy in corso alla Maddalena avrà una location da sogno. Sono attesi vip e star internazionali per una sorta di “Croisette” in arcipelago su cui sfileranno numerose ambasciatrici delle bellezze della Sardegna e dell’arcipelago che ospita la competizione.

E’ a La Maddalena uno degli oggetti naviganti più inguardabili che siano stati concepiti. Il passato, e anche il presente, ci ha proposto barche veramente brutte, ma almeno avevano l’attenuante di non avere nessuna firma e nessuna ambizione: erano il frutto di fantasie personali. Il pubblico di fronte a questa creatura di nome Ocean Emerald si sente costretto ad annuire, anzi stupire. Il motivo sta nella firma. Grande architetto, grande designer che si esprime a suon di conferenze stampa e che muove una corte rinascimentale di bravi ragazzi e ragazze che lo seguono con il nasino per aria. Si chiama sir Norman Foster, ed effettivamente è uno dei maestri dell’architettura contemporanea, ha scritto pagine interessanti nelle grandi opere londinesi e mondiali: torri, grattacieli, restauri. Ma andar per mare è una storia diversa, come sappiamo. E questa barca non solo è brutta da vedere, rolla anche da ferma per le sue grandi sovrastrutture. C’è qualcosa di buono? Si, il dentro non corrisponde al fuori, nel senso che gli spazi e gli arredi, le luci, sono gradevoli e lontani dal kitch consueto delle navette a motore, dove sembra spesso che le lezioni del design contemporaneo siano dimenticate e che si possa esprimere solo lo stile “ottone e radica”. Lo stile di arredo in realtà è molto simile  alla new age minimale proposta una decina di anni fa da alcuni progetti di restauro. Insomma sir Norman Foster ci ha deluso. E tanto. E più di lui tutti quelli che, solo perchè è baronetto, pensano abbia ragione.

Bellezza dei contrasti. Poche decine di metri separano il Marina dell’ex Arsenale della Maddalena dalla base dove si allunga la fila dei container, le “officine mobili” dei team in competizione al Louis Vuitton Trophy. La gigantesca gru telescopica muta il rosso intenso del suo braccio, dritto verso il cielo come se volesse ammonirlo, quando il sole lo scaraventa a terra, annerendolo quasi fosse la lancetta di una meridiana. Una radio a tutto volume, è il rapper Jay-Z ad irretire un’alba pacata,da affresco tiepolesco, e dunque rosa e celeste. In veleria, un ventilatore asciuga uno spinnaker, è tiepido, ronzante scirocco. Carbonio, kevlar, vetroresina: “cose” degne di Jules Verne per le barche a vela latina che beccheggiano appena nel riquadro di un azzurro appena increspato del marina. Sono nate e cresciute quando andar per mare era comunque fatica anche quando non era lavoro. Per orientarsi, le stelle, ben prima del sestante, del cronometro e delle effemeridi.

Apparsa intorno all’anno Mille, diffusa in Mediterraneo dagli arabi, la vela latina ha soppiantato la vela quadra. Per intenderci, quella di Ulisse. Dunque, i latini non c’entrano nulla con il suo nome, contrazione ed evoluzione della definizione “vela alla trina”, a triangolo, formato dall’”antenna”, issata diagonalmente all’albero, con l’angolo di scotta in basso. La Sardegna e in particolare La Maddalena,  hanno contribuito alla sua rinascita insieme a Stintino , Carloforte, Bosa, Alghero. I maestri d’ascia sardi ci sono ancora: tra i più noti, Del Giudice e Carrano, Polese, Sanna. E così i velai, che cuciono- volendo anche in tela- la grande “bastarda”, la media “burda”, la piccola “marabutto”.

Serpe istoriate, essenze pregiate, ottoni: è la palese “lontananza” da ogni assimilazione alla produzione in serie, fosse anche la più limitata. La bellezza è rigore: solo le bussole occhieggiano sulla coperta. Bitte e gallocce?  Domanda inutile, sono in legno. Vecchie signore, fascino d’antan, piacere di un tempo che fu? No, da tutte trasala un profumo ora quasi dimenticato, una compostezza domestica e virile, di quando si costruiva con la prospettiva del “sempre” e invece di buttare via si riparava e si restituiva. Non è solo flatting, è la mano del maestro che ha cercato nei tronchi  e nei rami quelli che avesse già la forma più idonea per intagliare uno un madiere, un segmento del cavallino. Verrebbe da accarezzarle ma potrebbero scostarsi, ingelosite dai tanti sguardi catalizzati dalle protagoniste del Louis Vuitton Trophy, slanciate e fatali nel loro abito nero che lascia spazio agli sguardi e ai commenti.

Il tempo delle signore a vela latina ormeggiate nel marina scorre al ritmo degli anni e dei decenni. Non è così per le atlete che si contendono anche l’ultimo decimo di secondo. Aveva ragione Einstein, anche il tempo è relativo.

Donatello Bellomo